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Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

Monday, December 11, 2006

Dolore cronico: ascoltare musica lo riduce

La musica aiuta a lenire il dolore cronico.
In particolare ascoltare musica distrae il pensiero dal dolore e migliora l’umore. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Journal of Advanced Nursing.

Lo studio è stato condotto da Sandra Siedlecki, della Cleveland Clinic Foundation, e dai suoi collaboratori; al trial hanno partecipato sessanta volontari di età media intorno ai 50 anni con esperienza di dolore cronico legata soprattutto a patologie quali l’osteoartrite e l’artrite reumatoide.
I volontari sono stati divisi in due gruppi uno dei quali ha ascoltato, per sei mesi, musica almeno per un’ora al giorno. Il tipo di musica è stata scelta dagli stessi pazienti a seconda dei loro gusti e la maggior parte di loro ha prediletto la musica melodica.
Secondo quanto emerso dalle interviste fatte ai volontari circa la percezione del dolore risulta che il gruppo che ha inserito la musica nella pratica quotidiana ne ha tratto beneficio in termini di percezione del dolore. Ma non solo. Secondo i ricercatori l’ascolto della musica produce piacere e forse effetti benefici sulla salute perché induce una alternanza controllata tra eccitazione e rilassamento. Un’appropriata selezione di brani musicali, composta di brani veloci e lenti intervallati da pause, potrebbe essere utilizzata come trattamento per indurre il rilassamento e avere effetti benefici nell’ambito della terapia delle patologie cardiovascolari.

“I partecipanti allo studio hanno dichiarato di aver tratto beneficio dall’ascolto della musica non solo nell’umore ma anche nella percezione del dolore. Per molti di loro essersi leggermente affrancati dal dolore cronico ha significato riprendere una vita normale che prima avevano abbandonato”, ha dichiarato la Siedlecki.
“Da anni ci occupiamo degli effetti della musicoterapia sul dolore e questo studio è per noi di forte incoraggiamento”, ha concluso la ricercatrice.

Fonte: Cleveland Clinic Foundation

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Friday, November 17, 2006

Dolore, il tuo nome è donna!

Il dolore ha un sesso?

Sì, secondo i ricercatori dell’University of Bath, che hanno scoperto che non solo le donne riferiscono di affrontare l’esperienza del dolore più frequentemente durante la vita, ma che provano dolore in un maggior numero di aree del corpo, più spesso e più a lungo degli uomini.

Ed Keogh, psicologo della Pain Management Unit dell’University of Bath spiega: “Le nostre ricerche ci dicono che le donne attraversano più esperienze dolorose nella vita e in più parti del corpo degli uomini. Sfortunatamente però le differenze di genere non sono affatto considerate negli studi sul dolore né nel campo della terapia analgesica”.

Il dibattito sulle differenze tra uomini e donne nella percezione del dolore ha subito appassionato il mondo scientifico, e da più parti ci si interroga sui motivi che sono alla base di tale differenza. “Mentre la maggior parte delle spiegazioni vertono su meccanismi biologici quali ad esempio le differenze genetiche o ormonali, sta diventando via via sempre più chiaro che i fattori sociali e psicologici hanno anch’essi un ruolo decisivo”, spiega Keogh.

Uomini e donne utilizzano strategie diverse per affrontare il dolore. Mentre le donne tendono a focalizzare gli aspetti emozionali dell’esperienza dolorosa che stanno attraversando, gli uomini tendono a concentrarsi sugli aspetti sensoriali e strettamente fisici. “Le nostre ricerche dimostrano che mentre l’approccio sensoriale utilizzato dagli uomini alza la loro soglia del dolore e aumenta la loro tolleranza, la strategia femminile di percezione del dolore non le aiuta affatto. Anzi, le donne che si concentrano sugli aspetti emozionali del loro dolore possono addirittura acuire le proprie sofferenze, perché le emozioni associate col dolore sono pressoché tutte negative”.

Fonte: University of Bath press release 2005.


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Friday, October 27, 2006

Il dolore degli altri… sulla nostra pelle

State guardando un film, il protagonista è sottoposto ad una prova dolorosa ed ecco che in voi scatta immediatamente una reazione emotiva di empatia, che vi fa avvertire quel dolore come vostro; è perché vi siete affezionati al personaggio o vedete voi stessi in lui?


La risposta la fornisce uno studio tutto italiano pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience: non siamo “mossi” soltanto nella sfera emotiva, come creduto finora, ma entra in gioco anche l’attivazione di precise strutture del cervello che nulla hanno a che vedere con i sentimenti e molto con la percezione sensoriale più primitiva, un meccanismo che nella storia dell’evoluzione umana ha rappresentato il primo passo verso la nascita di legami sociali.

La ricerca, condotta da Salvatore Aglioti del dipartimento di Psicologia dell’università di Roma La Sapienza e della Fondazione Santa Lucia della capitale, insieme ad Alessio Avenanti, aiuta a far breccia su malattie in cui i legami sociali sono distorti, come l’autismo. Inoltre i ricercatori ipotizzano che guardare qualcuno che soffre mentre si prova dolore possa aiutare a modulare la propria percezione del dolore.

I ricercatori hanno scoperto che quando vediamo qualcuno provare dolore fisico, anche uno sconosciuto per cui non sentiamo nulla, ci mettiamo fisicamente nei suoi panni perché la nostra corteccia motoria reagisce allo stesso modo alla vista come se fossimo noi in prima persona a provare dolore. Per scoprirlo i ricercatori hanno utilizzato la tecnica della stimolazione magnetica transcranica, ovvero una bobina stimolante posta in corrispondenza della corteccia motoria ha inviato nel cervello di un gruppo di volontari sani, senza provocare alcun dolore, campi magnetici. Questi permettono di controllare l’eccitabilità del sistema motorio che è legato alla percezione del dolore.

L’attività della corteccia motoria dei volontari è stata valutata mentre guardavano videoclip in cui un ago penetrava in una mano, un cotton fioc toccava la mano nello stesso punto e un ago penetrava in un pomodoro. La mano non apparteneva ad alcuna persona cara, in modo da escludere implicazioni emotive complesse. Le reazioni dei volontari hanno dato ai ricercatori le risposte cercate: quando i partecipanti guardavano l’ago penetrare nella mano il loro sistema motorio riduceva l’eccitabilità, come se essi stessi provassero dolore. Quanto più i volontari ritenevano che l’altro stesse soffrendo, tanto più si spegneva l’area della corteccia motoria, come per creare una sorta di anestesia. Non accadeva invece nulla di simile quando i soggetti guardavano l’ago penetrare nel pomodoro.

Queste reazioni al dolore altrui si innescano in modo del tutto involontario e senza alcuna correlazione con la sfera emotiva. Dunque esistono tanti tipi di empatia, non solo quelli legati alle “sfere” più alte dell’emotività e dei legami affettivi. L’empatia individuata da Aglioti è molto primitiva, basata sulla percezione che a provare dolore è un nostro simile indipendentemente dal legame che abbiamo con lui, e nella quale la parte sensoriale del cervello gioca un ruolo molto importante. Il fenomeno, battezzato “contagio somato-motorio”, scatta alla vista del dolore di un altro essere umano senza darci il tempo di riflettere su cosa proviamo per lui.
L’ipotesi dei ricercatori italiani è che questo tipo di empatia serva a imparare come reagire al dolore e che rappresenti forse l’esempio più primitivo di apprendimento sociale.

Fonte: Aglioti SM et al. Transcranial magnetic stimulation highlights the sensorimotor side of empathy for pain. Nature Neuroscience. doi:10.1038/nn1481.

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Friday, October 20, 2006

Cannabinoidi nella terapia del dolore

Pubblicato nuovo studio

A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

La terapia del dolore nei malati cronici non oncologici è uno degli argomenti più dibattuti. Sull’ultimo numero della rivista Canadian Medical Association Journal è stata pubblicata una metanalisi il cui obiettivo principale è stato proprio di confrontare l’efficacia degli oppioidi sul dolore cronico non oncologico rispetto ad altri tipi di trattamento. Ma non solo. La metanalisi si è proposta anche di identificare i tipi di dolore cronico non oncologico che rispondono meglio al trattamento con oppiacei e di rilevare quali sono gli effetti collaterali più comuni dopo il trattamento.

Sul trattamento con oppiacei per i malati cronici non oncologici la comunità scientifica si sta interrogando soprattutto perché si ha necessità di chiarire sia l’efficacia lenitiva di questa terapia sia gli eventuali effetti collaterali. Il trattamento con gli analgesici oppiacei è regolamentato nel caso dei malati oncologici sebbene sia applicato in maniera diversa dai diversi governi. L’OMS ha stabilito da tempo delle linee-guida per quanto concerne la terapia antalgica ma solo rispetto al dolore oncologico; ogni paese applica tali linee-guida anche in relazione alle leggi vigenti.

Secono la revisione sistematica pubblicata sul Canadian Medical Association Journal le terapie con oppiacei sono più efficaci di altre terapie farmacologiche; per contro gli effetti collaterali più comunemente registrati sono stati le disfunzioni sessuali; non sono stati registrati casi di sviluppo di dipendenza, contrariamente a quella che è la percezione di buona parte dell’opinione pubblica quando si parla di assunzione, anche se a fini terapeutici, di oppiacei.

La percezione, sia del grande pubblico che degli stessi scienziati, è molto cambiata a partire dagli anni ottanta quando sono stati individuati e caratterizzati i recettori per i cannabinoidi e, in particolare, l’esistenza di un sistema endocannabinoide. Questa scoperta ha infatti cambiato il punto di osservazione e invece di verificare gli effetti negativi dei cannabinoidi si è cercato di capire i meccanismi di base della loro azione e se queste molecole e i loro effetti potessero essere usati in maniera vantaggiosa per esempio nella terapia del dolore. A venti anni di distanza l’argomento è ancora molto dibattuto soprattutto perché, oltre a dover accumulare evidenze scientifiche sulla questione, in molti casi il cambio di prospettiva avvenuto nella ricerca non è stato corrisposto, almeno non ovunque, da un cambio nella stessa direzione della società.

Fonte: Furlan Ad et al. Opioids for chronic noncancer pain: a meta-analysis of effectiveness and side effects. CMAJ 2006;174:1589-94.


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Monday, October 09, 2006

La Cefalea

Aspetti particolari di psicologia del dolore

L'inquadramento delle cefalee parte inevitabimente da una accurata classificazione. La più aggiornata e precisa è stata curata dall'International Headache Society (IHS).

1. Emicrania

2. Cefalea di tipo tensivo

3. Cefalea a grappolo ed emicrania cronica parossistica

4. Cefalee varie non associate a lesioni strutturali

5. Cefalea associata a trauma cranico

6. Cefalea associata a patologie vascolari

7. Cefalea associata a patologia endocranica non vascolare

8. Cefalea da assunzione o da sospensione di sostanze esogene

9. Cefalea associata ad infezioni non craniche

10. Cefalea associata a patologie metaboliche

11. Cefalee o dolori facciali associati a patologie del cranio, collo, occhi, orecchi, naso e seni paranasali, denti, bocca o di altre strutture facciali o craniche

12. Nevralgie craniche, nevriti e dolori da deafferentazione

13. Cefalee non classificabili

FATTORI PSICOLOGICI della CEFALEA

La cefalea è probabilmente il sintomo fisico che viene legato maggiormente a problemi di natura psicologica. Quando si parla di "problemi psicosomatici" viene quasi inevitabile pensare a tutte quelle cefalee strettamente legate a problematiche affettive, emotive e di difficoltà in vari momenti della vita quotidiana.

Nei pazienti emicranici lo stress è presente in una percentuale che raggiunge i due terzi del numero totale dei pazienti, l'ansia è un fattore importante per quasi la metà di chi soffre di emicrania e la depressione è presente per circa un quinto.

Molte ricerche hanno potuto evidenziare che ansia, stress e depressione giocano un ruolo fondamentale sia da un punto di vista patogenetico che nel mantenimento del problema cefalalgico. In generale i cefalalgici hanno un'elevazione delle caratteristiche psicologiche ma non rientrano in un quadro psicopatologico, in altre parole i pazienti cefalalgici non possono essere collocati all’interno di un’unica e specifica tipologia di personalità nevrotica.

Stress e cefalea

Ci sono tre elementi fondamentali nelle relazione fra stress e cefalea.

Lo stress sembra essere un frequente fattore originario della cefalea vascolare sebbene la relazione causa-effetto sia meno chiara che nella cefalea di tipo tensivo. In ogni caso è ipotizzabile una prima azione dello stress come iniziatore della cefalea in individui biologicamente predisposti.

Un secondo aspetto riguarda la capacità dello stress di potenziare o intensificare una cefalea in corso.

L’emicrania provocata dallo stress di solito non si scatena al picco dello stress, ma durante il periodo di rilassamento immediatamente successivo. L’ipotesi è che lo stress entri in gioco nella multifattorialità dei fattori scatenanti aumentando la vulnerabilità del soggetto all’emicrania.

La terza considerazione sulla relazione fra stress e cefalea fa notare come la prolungata presenza di un problema di cefalea provochi un circolo vizioso evidente e doloroso. La presenza di un dolore o fastidio continuo o intermittente, l’aspettativa di una crisi sono tutte situazioni che provocano l’innalzamento dei livelli di stress che diventano il punto di partenza per la cefalea che a sua volta innesca il processo doloroso.

Ansia e cefalea

L’ansia è un’emozione utile per affrontare in modo corretto tutti i problemi e gli eventi della vita quotidiana. Questa fondamentale funzione spesso è così routinaria che non ne esiste una percezione diretta. Solamente quando raggiunge dei livelli di disagio l’ansia comincia ad essere fastidiosa e anche dolorosa. In questi casi diventa una previsione del futuro esagerata e pessimistica che, nei casi di ansia continua e cronicizzata, porta allo sviluppo di problemi psicosomatici. La persona ansiosa è costantemente in stato di allarme per cercare di controllare l’evento temuto. L’attivazione psicofisiologica determinata dallo stato di allarme comporta una tensione muscolare che potrebbe essere la responsabile delle cefalee che si rilevano con molta frequenza nelle persone ansiose.

Depressione e cefalea

La cefalea è il sintomo somatico più frequente nella depressione e viene segnalata da oltre il 50% dei pazienti depressi.

La comprensione del ruolo della depressione nella cefalea è complicata dal fatto che diversi disturbi vegetativi della depressione (anoressia, disturbi del sonno, mancanza di energia, ecc.) possono essere attribuiti anche alla cefalea.

Diventa quindi importante nella valutazione stabilire fra cefalea e depressione quale dei due sia la causa e quale l’effetto.

Cefalea ed emozioni

Il rapporto fra cefalea ed emozioni ha beneficiato di un’ampia varietà di studi che hanno cercato conferme alla comune esperienza vissuta da moltissime persone in base alla quale un attacco cefalalgico segue immediatamente un'intensa situazione emozionale. Questo fatto potrebbe essere confermato dalle cefalee già in atto che aumentano di intensità in seguito a fattori emozionali. Non è possibile stabilire, tuttavia, un rapporto di causa-effetto come queste osservazione empiriche ma superficiali potrebbero indicare. Nel rapporto fra cefalea ed emozioni si esclude , quindi un meccanismo causale. Basti pensare a quei casi in cui l’attacco di cefalea prende il via nel momento in cui vengono a cessare i fattori emozionali. Questo è il tipico caso della cefalea da Week-end caratteristica delle persone che si impegnano molto sul lavoro e hanno un'esplosione cefalalgica proprio nel momento dello stacco settimanale.

Una funzione completamente differente è quella di altre esperienze nelle quali, in seguito ad un'intensa emozione, il dolore cefalico è completamente cessato.

TERAPIA NON FARMACOLOGICA DELLA CEFALEA

La terapia non farmacologica della cefalea deve tenere in debito conto la presenza di stress, ansia e depressione.

Sul piano prettamente tecnico le metodologie maggiormente impiegate sono le seguenti:

1) Training di rilassamento.

Il grande vantaggio delle tecniche di rilassamento è la loro semplicità d’uso e il loro approccio del tutto naturale senza la necessità di apparecchiature elettromedicali o di sussidi farmacologici.

2) Biofeedback Training.

Il ruolo del Biofeedback nella terapia non farmacologica della cefalea è stato oggetto di una quantità notevolissima di ricerche che ne hanno puntualizzato l’efficacia in diversi tipi di cefalea.

Nel EMG Biofeedback Training al paziente viene insegnato a rilassare la muscolatura frontale. In altre metodologie gli elettrodi di superficie sono stati applicati sul trapezio.

Nel Thermal Biofeedback il paziente viene addestrato ad aumentare la temperatura periferica delle mani provocando in tal modo una vasodilatazione. Il training produce progressivamente una abilita` di controllo vasomotorio che viene impiegata per ridurre ed eliminare l'accesso emicranico con un’azione sia preventiva che sintomatica.

3) Tecniche cognitivo-comportamentali

Hanno lo scopo di aiutare il paziente a prevenire le sensazioni dolorose prima che diventino molto intense. Il paziente impara a riconoscere i segnali discriminativi che indicano l’inizio di un processo che porta alla tensione muscolare e quindi alla cefalea.

4) Associazione fra terapia di rilassamento/biofeedback e terapia farmacologica

Il paziente cefalalgico può trarre beneficio da un approccio psicologico anche se continua ad assumere una terapia farmacologica.

Le ricerche hanno sostanzialmente notato che i singoli trattamenti da soli, sia farmacologici che attraverso il Biofeedback, hanno una efficacia che si equivale e comunque producono minori effetti rispetto alle combinazioni terapeutiche.

5) Ipnosi.

L’ipnosi nella cefalea è stata applicata soprattutto come modalità per attenuare il dolore. Gli obiettivi ai quali tende il ciclo delle sedute ipnotiche sono aspecifici (apprendimento dell’autocontrollo emotivo, maggiore sicurezza di sé stesso, fiducia nelle possibilità di controllo del sintomo) e specifici (risposta antagonista all’ansia, fattore miorilassante delle zone contratte , riequilibratore dell’emodinamica circolatoria delle zone stesse, alleviamento sintomatico del dolore).

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Thursday, September 14, 2006

Dolori di crescita

Quando e perché fare la visita dall'ortopedico La valutazione specialistica per prevenire eventuali complicanze è utile se esistono sintomi particolari, posture o appoggi scorretti, predisposizioni familiari allo sviluppo di paramorfismi di Fabio Lodispoto *

È raro che i bambini e gli adolescenti in età scolare vengano sottoposti a una visita di controllo ortopedica. Ci sono invece almeno tre situazioni che richiedono una attenta valutazione specialistica per prevenire eventuali complicanze ortopediche: la comparsa di un dolore articolare, muscolare o scheletrico; una predisposizione familiare allo sviluppo di paramorfismi come scoliosi e alluce valgo; lo sviluppo di posture e appoggio plantare scorretti.Se si escludono dolori passeggeri e di poco conto come quelli conseguenti all'accumulo di acido lattico nei muscoli, a piccoli urti e traumi frequenti nei bambini in continua attività ludica e sportiva ogni disturbo doloroso andrebbe attentamene sottoposto allo specialista.Dicevano le nostre nonne di non preoccuparsi dei dolori di crescita: passano da soli. Avevano ragione, molti di questi dolori sono osteocondrosi giovanili: infiammazioni delle delicate cartilagini di accrescimento che tuttavia si autolimitano e scompaiono con un po' di riposo e blandi antinfiammatori senza lasciare conseguenze. Non tutti i dolori tuttavia hanno decorso favorevole alcuni nascondono patologie più serie a vanno attentamente distinti.

Malattia di Sever-Blank
Si tratta di una infiammazione che colpisce la cartilagine di accrescimento del tallone nei bambini tra i 9 e gli 11 anni. Il dolore è localizzato posteriormente al calcagno dove fa presa il tendine di Achille, limita lo sport e penalizza anche la semplice deambulazione nei casi più severi. Il riposo, calzature comode il ghiaccio e poche compresse di antidolorifico le cure più adeguate

Malattia di Osgood-Schlatter
Il disturbo interessa il ginocchio nel punto in cui il tendine rotuleo si inserisce alla tibia. Può comparire nella zona di dolore anche un piccola sporgenza che la radiografia mette in evidenza come "infiammazione e frammentazione della cartilagine di accrescimento della tuberosità tibiale anteriore". Sono in genere maschietti, specie se praticano con assiduità il calcio a soffrirne. Il disturbo regredisce spontaneamente con un periodo di sospensione della attività sportiva e senza lasciare tracce. Attenzione però ad ignorare il dolore. Continuare stoicamente a fare sport può portare allo sviluppo di calcificazioni permanenti che richiedono la asportazione chirurgica.

Malattia di Sinding- Larsen
Simile alla precedente, ma più rara colpisce sempre il ginocchio ma a livello della rotula, quindi poche dita più in alto.

Malattia di Koeler
Frequente specie nelle femminucce interessa il secondo metatarso del piede. La testa del metatarso va incontro ad una sofferenza ischemica, non riceve più un sufficiente apporto di sangue e ossigeno e perde vitalità. Infine perde resistenza e si deforma. Il dolore tuttavia passa spontaneamente, ma a differenza degli altri "dolori di crescita" a distanza di anni, una volta adulto, il piede sviluppa una forma di artrosi localizzata alla base del secondo dito che può richiedere un piccolo intervento chirurgico.

Epifisiolisi
Si tratta di un disturbo della cartilagine di accrescimento che si trova tra la testa del femore e il suo collo. Il dolore è tipicamente riferito all'inguine tanto da dare zoppia e un tipico atteggiamento antalgico con l'arto sofferente addotto e ruotato internamente. Progressivamente la testa del femore scivola sul collo e si angola in posizione anomala, tanto da sviluppare una grave limitazione permanente e una volta raggiunta l'età adulta, l'artrosi dell'anca. Una comune radiografia chiarisce il problema, che può essere brillantemente risolto con un tempestivo intervento chirurgico di riduzione e fissazione della testa del femore nella posizione anatomica.

Spondilolisi e spondilolistesi
Si tratta di una frattura da stress dei peduncoli posteriori di una vertebra lombare, in genere l'ultima o la penultima. Forse esiste un predisposizione a questa lesione vertebrale per cui chi ne soffre sviluppa localmente tessuto fibroso anziché osseo nella sede della disgiunzione. Ma sono soprattutto le sollecitazioni di sport come la danza e la iperlordosi lombare che creano una sollecitazione eccessiva sulle ultime vertebre, tanto da lesionarle. Quando entrambi i peduncoli vertebrali si sono pian piano fratturati, la vertebra soprastante diventa instabile e scivola in avanti. In questo modo oltre ai dolori si sviluppano anche sintomi neurologici dovuti allo stiramento delle radici nervose che prendono origine dal canale midollare.

Nella prima fase la fisioterapia e il rinforzo muscolare possono essere un valido aiuto, ma quando si è instaurato uno scivolamento con sintomi neurologici agli arti inferiori si deve ricorrere ad un intervento chirurgico di stabilizzazione vertebrale con placca e viti metalliche.

Alluce valgo, piede piatto e scoliosi
Si tratta di deformazioni dello scheletro che non hanno nella maggioranza dei casi altra spiegazione che una predisposizione genetica. Come dire un errore di progetto che si eredita dalla famiglia. Non è raro trovare infatti famiglie in cui varie generazioni soffrono di alluce valgo. E' bene così controllare periodicamente il piedino specie delle bambine che hanno in famiglia più componenti affetti da alluce valgo e/o piede piatto. Nei casi di forte predisposizione familiare si può osservare lo sviluppo di alluce valgo già a otto-dieci anni, più spesso in associazione ad un severo piede piatto. Plantari adeguati possono correggere il piede piatto e ritardare lo sviluppo dell'alluce valgo. La baropodometria ( lo studio computerizzato del passo) è un esame che aiuta a seguire nel tempo la evoluzione del piede piatto, mentre le radiografie sono più indicate allo studio dell'alluce che si è deformato. Il piede piatto, se è così grave da sviluppare dolore o fa prevedere allo specialista complicanze articolari, deve essere corretto chirurgicamente, preferibilmente tra i nove e i dodici anni.

A questo scopo sono state disegnate speciali viti che si impiantano per via mininvasiva attraverso un accesso cutaneo millimetrico sotto il malleolo laterale e che limitano il movimento anomalo del piede. Le viti realizzate in acido polilattico scompaiono dopo qualche anno a sviluppo scheletrico ultimato. Interventi correttivi precoci anche per l'alluce valgo, ma preferibilmente meglio spettare i 16-17anni.La scoliosi è una deformazione della colonna che si incurva ad esse fino a rendere asimmetrico il profilo dei fianchi, della spalle e del torace. Rispetto al passato il problema è stato ridimensionato e i casi lievi di deviazione della colonna, di pochi gradi, sono oggi considerati non patologici o comunque privi di conseguenze rilevanti.

Devono tuttavia essere controllati periodicamente, perché specie durante il periodo di rapido accrescimento in altezza degli adolescenti, la scoliosi lieve può peggiorare rapidamente. Le cure sono in genere fisioterapiche, consigliate apposite ginnastiche posturali. Il busto è riservato ai casi più gravi o con tendenza al peggioramento; solo le scoliosi con deviazioni maggiori necessitano di intervento chirurgico.

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Monday, August 28, 2006

Herpes zoster

Terapia efficace in 8 casi su 10
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore

Circa 350 mila persone ogni anno devono fare i conti con l’Herpes zoster, noto anche come Fuoco di Sant’Antonio. E l’incidenza è in netto aumento, fino al 65 per cento in più. La malattia colpisce prevalentemente soggetti con difese immunitarie indebolite: innanzitutto anziani, ma è molto frequente anche nei pazienti immunodepressi per infezione da Hiv o perché sottoposti a trapianto d’organo.

La malattia consiste nella comparsa di vescicole sulla pelle spesso accompagnate da fortissimo dolore: è di tipo virale, dovuta alla riattivazione del virus della varicella, rimasto silente all’interno di particolari strutture nervose dopo l’infezione primitiva risalente di solito all’infanzia. Il processo patologico interessa le terminazioni nervose sensitive e provoca un dolore di tipo trafittivo talvolta molto intenso, che può durare alcune settimane. In un certo numero di casi il dolore rimane anche dopo la fase acuta, cioè quando le vescicole scompaiono e la malattia prende il nome di nevralgia posterpetica, di durata indefinita.

Le terapie attualmente disponibili per la cura dell’Herpes sono finalizzate soprattutto all’inibizione della replicazione virale mentre trascurano quasi completamente il sintomo dolore. I più comuni farmaci analgesici (antinfiammatori non steroidei, oppiacei) sono infatti scarsamente attivi sul dolore neuropatico. Tra le poche terapie disponibili volte alla cura del dolore da Herpes zoster, il trattamento considerato ad oggi di prima scelta è l’applicazione locale di un composto contenente acido acetilsalicilico ed etere etilico. Questa combinazione terapeutica è stata ideata da un clinico italiano, Giuseppe De Benedittis, direttore del centro per la terapia del dolore dell’Università di Milano.

Già agli inizi degli anni Novanta De Benedittis intuì che l’acido acetilsalicilico, applicato sulla cute assieme all’etere etilico, poteva svolgere un’azione antidolorifica diretta sulle terminazioni nervose interessate dal processo infiammatorio provocato dalle lesioni dell’Herpes. L’etere etilico ha la funzione di ‘sgrassare’ la porzione di cute interessata, favorendo la penetrazione dell’aspirina in modo concentrato verso i nocicettori (recettori del dolore). La “terapia De Benedittis” è riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale e inclusa in diversi modelli di protocollo terapeutico accettati a livello internazionale.

“Questa tecnica di terapia locale accelera i tempi di guarigione dell’Herpes zoster e consente un rimedio antidolorifico buono o eccellente fino all’80 per cento dei casi”, illustra De Benedittis; “nella nevralgia posterpetica, cioè nella fase successiva a quella acuta, la percentuale di successo terapeutico è inferiore, ma comunque intorno al 60 per cento, valore difficilmente raggiungibile con altre terapie farmacologiche. I pazienti però vanno istruiti nella tecnica di preparazione e applicazione". La terapia locale con acido acetilsalicilico più etere etilico infatti non esiste come prodotto disponibile in commercio: il preparato deve essere quindi allestito al momento e subito applicato.

Scritto da:antonio caperna

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Thursday, August 24, 2006

L’efficacia dell’ipnosi nel dolore

Tratto da:"Psicologia contemporanea" n. 168, Novembre/Dicembre 2001

Benche’ i medici che esercitano l’ipnosi vantino generalmente ottimi risultati nelle piu’ svariate malattie, e soprattutto nella terapia del dolore, la comunita’ scientifica rimane spesso abbastanza scettica in quanto tali affermazioni non appaiono suffragate da prove concrete e per la maggior parte si riferiscono a casistiche sporadiche e non controllate. In alcune scuole di medicina, soprattutto negli USA e in Inghilterra, l’ipnosi e’ compresa tra le materie di insegnamento e viene usata specialmente dai dentisti nella analgesia orale, tuttavia l’affermarsi di terapie farmacologiche affidabili e prive di sostanziali effetti collaterali ha ridotto sempre di piu’ questa pratica.
Alcuni ricercatori americani hanno voluto fornire una chiarificazione sulla reale efficacia della suggestione ipnotica nella terapia del dolore e piu’ generalmente nel miglioramento dello stato del paziente. Hanno effettuato percio’ una metanalisi degli studi sull’argomento eliminando tutte le casistiche aneddotiche ed esaminando solo quelle che rispondevano a precisi criteri scientifici ed hanno paragonato i risultati ottenuti con quanto prevedibile secondo la "scala di sensibilita’ all’ipnosi", un questionario che distingue i soggetti in alta media e bassa suggestionabilita’. I ricercatori hanno rilevato che nel 75% dei pazienti le suggestioni ipnotiche avevano avuto un reale effetto nel ridurre il dolore e che, escludendo i soggetti a bassa suggestionabilita’, la maggior parte dei rimanenti soggetti aveva ricavato un reale beneficio dal trattamento ipnotico. Il beneficio veniva valutato sia dalle dichiarazioni dei pazienti e dalle risposte a dei questionari appositi, sia mediante osservazioni nel loro comportamento (riduzione della richiesta di analgesici o di tranquillanti) nonche’ dei correlati psicofisiologici rilevati con elettrodi dopo il trattamento. Non sono state riscontrate controindicazioni o effetti collaterali indesiderati e oltretutto, poste a confronto con un gruppo di soggetti che aveva praticato intervento psicologico di tipo non ipnotico per la riduzione del dolore, le suggestioni ipnotiche sono risultate complessivamente piu’ efficaci.

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Wednesday, August 16, 2006

La musica fa bene al dolore

Secondo uno studio dell'Università dell'Ohio pubblicato sul Journal of Advanced Nursing, l'ascolto della musica può attenuare la percezione del dolore cronico del 21% e la depressione del 25%.
Lo studio, realizzato dalla Cleveland Clinic Foundation, è stato condotto su una sessantina di volontari divisi in due gruppi musicali e in un gruppo di controllo. I partecipanti avevano in media 50 anni, erano stati reclutati all'interno delle cliniche specializzate nel trattamento del dolore e soffrivano da almeno sei anni di diversi disturbi, dall'osteoartrite all'artrite reumatoide all'ernia al disco.
La ricerca ha dimostrato che ascoltare musica per un'ora ogni giorno per una settimana migliora i sintomi fisici e psicologici rispetto a chi non ascolta musica.
I due gruppi musicali erano divisi anche per generi: da una parte musica rock, pop e new age, dall'altra piano, jazz, orchestra, arpa e musica sintetica. Ma tra i due gruppi non si sono avute differenze significative rispetto al dolore.
Fonte: Lanci - Journal of Advanced Nursing

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Friday, August 11, 2006

Perché il calore è analgesico

SCOPERTO il segreto della "borsa dell'acqua calda" contro il dolore.

In pratica questo rimedio della nonna funziona quasi come un antidolorifico, perché disattiva la sofferenza a livello molecolare. Lo hanno appurato i ricercatori dell'University College di Londra, che hanno usato una speciale tecnologia per verificare il funzionamento dei recettori di calore e dolore all'interno delle cellule.

Gli scienziati diretti da Brian King spiegano che le temperature superiori ai 40 gradi centigradi accendono i recettori interni del calore, così questi ultimi bloccano l'effetto dei messaggeri chimici che permettono al corpo di rilevare il dolore.

La ricerca, presentata alla conferenza della Physiological Society, puntava infatti a spiegare perché un sistema semplice come la borsa dell'acqua calda spegne da secoli dolori mestruali, crampi o coliche. Così, grazie a una tecnologia al Dna, gli studiosi hanno guardato dentro una cellula, per studiare le interazioni tra il recettore del calore (TRPV1) e quello del dolore (P2X3).
Si è dunque visto che il recettore del calore può bloccare quello del dolore e interrompere la sofferenza percepita dall'organismo.

Non solo, sembra proprio che l'effetto antidolorifico da caldo possa perdurare per oltre un'ora.
"Il dolore da colica, ciclo mestruale o cistite è causato da una temporanea riduzione del flusso del sangue negli organi colpiti, che causa danni locali ai tessuti e attiva i recettori dolorosi.

Il calore non solo fornisce un aiuto o ha un effetto placebo, ma disattiva il dolore a livello molecolare", spiega King. Più o meno lo stesso meccanismo adottato da molti antidolorifici.
Lo studio conforterà i fedeli dei rimedi della nonna, ma può anche porre le basi per lo sviluppo di farmaci più efficaci diretti specificamente contro i recettori individuati dalla ricerca.
Infatti, secondo gli studiosi inglesi, questi hanno rivelato un ruolo importante e potrebbero essere il bersaglio per nuovi prodotti anti-dolore.

tratto da:Repubblica.

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Saturday, August 05, 2006

L'interruttore del dolore cronico

Ricercatori del Dipartimento di medicina della Columbia University hanno scoperto una proteina che nelle cellule nervose agisce come interruttore per il dolore cronico, presentando domanda di brevetto per lo sviluppo di una nuova classe di farmaci che dovrebbe agire proprio spegnendo questo interruttore.

Finora la maggior parte dei tentativi di alleviare i dolori cronici si era concentrato sui neuroni di “secondo livello”, quelli che nel midollo spinale trasmettono i segnali dolorifici al cervello.
I ricercatori della Columbia University si sono invece concentrati sui neuroni più periferici, quelli che inviano i segnali al midollo spinale.

Il dolore diviene cronico quando l’attività dei neuroni di primo e secondo livello persiste anche quando il neurone danneggiato è guarito, o quando è venuta meno l’infiammazione dei tessuti circostanti. Da anni si supponeva che questo fenomeno fosse legato a una sorta di interruttore generale del dolore nei nervi periferici; quale fosse, tuttavia, era ignoto. Questa ricerca lo ha ora identificato nell’enzima proteinchinasi G (PKG).

fonte: Le Scienze

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Wednesday, August 02, 2006

Quell’«invisibile» terapia del dolore

Da un articolo di :Donatella Barus

Secondo un recente sondaggio, quattro persone su cinque non sanno neppure che in Italia esistono specialisti e di ambulatori ad hoc.

MILANO
– Negli ultimi anni il consumo dei farmaci a carico del Sistema Sanitario Nazionale per il trattamento del dolore è quasi triplicato e la spesa per questi medicinali è raddoppiata, ma 4 italiani su 5 neppure sanno che esistono medici e centri specializzati in questo settore.
Dai dati di un sondaggio condotto dalla Ipsos a metà maggio, infatti, solo il 22 per cento degli intervistati è a conoscenza del fatto che ci sono terapie mirate a lenire la sofferenza dei malati, e si tratta perlopiù di donne (non a caso, le più coinvolte nell’impegno di cura di anziani e infermi), di persone istruite, con uno status socio-economico elevato e residenti nelle regioni settentrionali. Spicca una forte carenza di informazioni, invece, nel centro-sud e tra i più giovani, che in larga parte ancora non hanno dovuto confrontarsi con queste problematiche. In generale, poi, la terapia del dolore in Italia continua ad avere il sapore di un’occasione mancata, per cui 24 persone su cento hanno avuto esperienza diretta (personale o di un familiare) di un dolore cronico, ma soltanto la metà, il 12 per cento, dichiara di avere fatto ricorso a cure antalgiche specifiche.
Questo quadro, che illustra bene quanto ci sia ancora da fare sul fronte dell’informazione per i pazienti e le loro famiglie, è stato delineato in occasione della presentazione della Quinta Giornata nazionale del Sollievo, promossa dalla Fondazione Nazionale “Gigi Ghirotti”, dal ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e prevista quest’anno per domenica 28 maggio. Scopo dell’iniziativa (vedi gli eventi nelle diverse Regioni) è proprio aumentare la soglia di consapevolezza e di sensibilità sul diritto a non soffrire e, al tempo stesso, intaccare la barriera di solitudine e isolamento che imprigiona molti malati, anche oncologici.

Insiste sull’informazione dei cittadini anche il neo-ministro della Salute LiviaTurco, che domenica ha inaugurato il suo mandato celebrando la Giornata presso il Policlinico Gemelli a Roma e che in un messaggio a Bruno Vespa, presidente della Fondazione Ghirotti, afferma di voler affrontare le evidenti «difficoltà di orientamento» dei pazienti: «Si fa fatica - dice - ad entrare in possesso delle informazioni giuste, a sapere con certezza quale è la struttura più idonea alla quale rivolgersi, qual è il percorso più virtuoso». E stila una lista delle cose da fare «con urgenza», includendo la «sburocratizzazione» della prescrizione dei farmaci oppiacei (cioè eliminare l’ostacolo ancora ingombrante del ricettario speciale), l’obbligo dell’aggiornamento per gli operatori, con un occhio di riguardo per i medici di medicina generale, il sostegno all’applicazione negli ospedali delle linee guida per un Ospedale senza dolore, prima fra tutti la misurazione del dolore e la sua registrazione come parametro vitale all’interno della cartella clinica.

Il nostro Paese, in effetti, non riesce a staccarsi dalla posizione di fanalino di coda, in Europa e nel mondo, nelle graduatorie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’utilizzazione di farmaci oppiacei, anche se le nuove norme in materia hanno rivoluzionato l’accesso a questo tipo di analgesici. Come dicevamo, la spesa del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in questo settore è passata da 34,5 milioni di euro nel 2004 a 60,9 milioni nel 2005, mentre nello stesso periodo il consumo in dosi dei medicinali per il trattamento del dolore rimborsati ai pazienti è passato da 7,9 milioni a oltre 22 milioni di dosi, secondo l’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, grazie alla rimborsabilità di nuovi preparati e alla disponibilità di nuove confezioni di medicinali già rimborsati. Unico neo, un calo del consumo di morfina che, sostiene l’AIFA, «rimane il trattamento di base del dolore grave e la cui prescrizione è stata sostituita con farmaci molto costosi per via transdermica (i “cerotti”, ndr), ma non più efficaci o parimenti efficaci della morfina per via orale». Non è estranea a questo stallo una certa ambiguità introdotta dalla nuova legislazione in tema di sostanze stupefacenti che non distingue a dovere tra uso terapeutico e abuso gratuito, stando al parere di addetti ai lavori di tutto rispetto, come Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma, e Franco Henriquet, anestesiologo genovese da vent’anni anima della Fondazione Ghirotti.

Sunday, July 30, 2006

Via libera a 13 farmaci gratuiti antidolore

Tratto da:www.corriere.it

Dieci sono nuovi medicinali; 3 erano invece già in commercio, ma nella fascia "C", a carico dei malati. Tutti sono oppiacei.

MILANO - L'Agenzia Italiana del Farmaco ha deciso di inserire nella fascia A del Prontuario Farmaceutico Nazionale (quella completamente gratuita per i malati) tredici farmaci per il trattamento del dolore. Dieci sono nuovi medicinali; tre, invece, erano già in commercio, ma sono stati riclassificati dalla fascia C (a totale carico del paziente) nella fascia A. Il provvedimento era stato preannunciato alcune settimane fa dal ministro della Salute Girolamo Sirchia, e ora diventa operativo.

Fra i 13 antidolorifici, alcuni - come il Contramal, il Fortradol, il Co Efferalgan, il Tramadolo, il Tramalin, e il Prontalgin - sono indicati per il trattamento del dolore lieve e moderato, mentre altri - come il Transtec e il Ticinan - vengono utilizzati per contrastare il dolore di grado severo. Altri ancora, infine, come l'Actiq e l'Oxicontin sono indicati, rispettivamente, per il dolore acuto e per quello grave.

"La decisione dell'Agenzia Italiana del Farmaco - spiega Furio Zucco, presidente della Società Italiana di Cure Palliative - riguarda i farmaci oppiacei, sia quelli cosiddetti 'minori' (Tramadolo, Codeina), sia i 'maggiori' (morfina, Fentanyl). Questi medicinali, finora, erano stati utilizzati molto poco in Italia, a differenza di quello che avviene in altri Paesi, anche se possono alleviare in modo potente il dolore. Adesso, il passaggio nella fascia A permetterà, si spera, un uso più frequente. Ma c'è ancora molta strada da percorrere per combattere quello che noi chiamiamo il 'dolore-malattia', ossia il dolore inutile. In particolare, bisogna infrangere la barriera culturale e psicologica (oltre a quella economica), cioè la 'riluttanza', da parte di molti medici, a prescrivere gli oppiacei, perché sono sostanze con pesanti effetti collaterali. Questo è vero, ma è anche vero che, in molti casi, non esistono controindicazioni serie per la loro somministrazione ai malati colpiti da dolore severo".

Fra i farmaci che hanno ottenuto il via libera c'è anche il Fentanyl transmucoso, un vero e proprio lecca-lecca che il paziente può utilizzare da solo (senza dover ricorrere, per esempio, alle iniezioni), e che ha una notevole efficacia contro il dolore acuto.

"Ci stiamo mettendo al passo dei Paesi più avanzati nella lotta contro il dolore - conclude Zucco, - ma occorre una rete di monitoraggio del trattamento, e un potenziamento dei centri per le cure palliative, ancora insufficienti in Italia".

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Thursday, July 27, 2006

Fibromialgia e psiche

Una delle domande più frequenti sulla fibromialgia è senza dubbio: “Si tratta di una malattia di origine psichica?” La ricerca internazionale che sta studiando la sindrome se n’è occupata a fondo negli ultimi vent’anni, ed è giunta alla conclusione che non lo è. È un dato molto importante, perché quasi tutti i pazienti prima o poi si sono sentiti dire che sono troppo ansiosi, che sono nevrotici , i loro sintomi sono pura immaginazione. È un duro colpo; nella migliore delle ipotesi si sentono incompresi, nella peggiore dubitano della propria salute mentale e si colpevolizzano di essere malati. Questa affermazione è sicuramente sbagliata. Se soffrite di fibromialgia non lasciatevi convincere che dipende tutto dalla vostra psiche. La malattia è già pesante da sopportare senza che dobbiate essere caricati anche di sensi di colpa!
La fibromialgia non è una malattia psichica!

Questo non vuol dire la psiche non la influenzi affatto. È naturale che una malattia che ha un peso così grande nella vita quotidiana abbia conseguenze sullo stato psichico . Come la maggior parte delle malattie croniche, la malattia provoca anche uno stato di abbattimento, di tristezza, o di depressione. Che a loro volta influiscono negativamente sullo stato fisico del paziente.

Abbiamo a che fare, dunque, con un complesso circolo vizioso, nel quale lo stato psichico è uno dei tanti fattori, ma certo non l’origine prima della malattia. È vero, anche le depressioni - specie quelle dette “larvate” o “nascoste” – provocano sbalzi d’umore, disturbi del sonno, dolori di testa o di pancia , bocca secca, disturbi cardiaci e molti altri sintomi comuni alla fibromialgia. Ma ci sono segni evidenti che distinguono quest’ultima dalla depressione larvata: i sintomi fisici nel depresso sono il più delle volte variabili, migranti e meno definibili che non nel fibromialgico. Ma soprattutto è determinante il fatto che nel depresso non si evidenzia dolore nei famosi tender points!

I cambiamenti nello stato psichico del paziente si spiegano come una conseguenza della malattia cronica. Provare dolori forti per anni, disturbi del sonno e sentirsi incompresi sul proprio stato turberebbe chiunque. Lo stato d’animo abbattuto è più che comprensibile.
Sarebbe strano il contrario: soffrire di tutti questi disturbi e limitazioni e non lasciarsene affatto turbare! .

C’è un modo per migliorare lo stato psichico e l’umore del paziente?
Non tutti hanno bisogno dello psichiatra o dello psicoterapeuta. Ogni cambiamento sostanziale del comportamento e della vita quotidiana o un colloqui intensivo con una persona di fiducia, partner o amico, ha già valenze terapeutiche. Il vostro stato dipende anche dal modo in cui riuscite a prendervi cura di voi stessi nell’ambito della malattia.

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Monday, July 24, 2006

Ricercatori britannici: anche l'ipnosi contro il dolore

MILANO - da un articolo di:Donatella Barus

Non solo suggestione "stregonesca", ma terapia psicologica che in alcuni casi risulta efficace: l'ipnosi - secondo un gruppo di ricercatori britannici - può aiutare i malati di cancro a vivere meglio, alleviando il dolore e limitando gli effetti collaterali dei trattamenti antitumorali. L'ipnosi è un particolare stato di coscienza (o di sonno) che può essere indotto con varie tecniche (a volte anche solo con l'uso delle parole) in persone predisposte. Le tecniche ipnotiche, aggiungono gli studiosi britannici, appaiono una risorsa promettente, anche se ancora poco esplorata.

A dispetto dello scetticismo
che accompagna una pratica spesso mistificata, infatti, le applicazioni terapeutiche dell'ipnosi sono già note, per chi, ad esempio, vuole smettere di fumare, perdere peso o gestire disturbi psichici.
In occasione del recente incontro annuale della British Association for the Advancement of Science, la dottoressa Christina Liossi, psicologa dell'università del Galles, ha riferito dei risultati ottenuti contro depressione, nausea, vomito e dolore nei pazienti oncologici sottoposti ad ipnosi. "Sappiamo che l'ipnosi è in grado di agire sul sistema immunitario" - afferma la Liossi sul sito dell'American Society of Clinical Oncology, che ha anche illustrato i dati di uno studio mirato su bambini dai 6 ai 16 anni, affetti da tumore. Ai piccoli pazienti (80 in tutto) sono stati somministrati analgesici locali, e metà dei piccoli pazienti è stata inoltre sottoposta a ipnosi.

Quando è stato chiesto ai bambini di indicare l'intensità del dolore provato durante le procedure mediche, secondo una determinata scala di percezione, il gruppo che aveva sperimentato l'ipnosi ha dichiarato una sofferenza minore.

Ma anche le cosiddette tecniche di "brain imaging", o neuroimmagini, ovvero quelle che consentono di visualizzare una parte delle attività cerebrali, contribuiscono a comprendere meglio il fenomeno. E soprattutto a dimostrare che dietro gli effetti dell'ipnosi c'è ben poca magia, ma piuttosto meccanismi biologici complessi e scientificamente "misurabili".
Il professor John Gruzelier, dell'Imperial College di Londra, ha "fotografato" il cervello di persone prima e durante una seduta di ipnosi grazie alla risonanza magnetica funzionale: è emerso che sotto ipnosi, nelle persone più "sensibili", avvengono dei mutamenti significativi a livello della corteccia frontale sinistra (quell'area dell'encefalo coinvolta nei processi cognitivi più complessi e nel comportamento) e della regione chiamata "giro cingolato", connessa con la valutazione delle reazioni emotive.

Insomma, il cervello lavora in maniera differente. Ecco perché, ha spiegato Gruzelier, un soggetto ipnotizzato può compiere azioni che in stato di veglia cosciente sarebbero impensabili.

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Wednesday, July 19, 2006

Gli italiani soffrono troppo

Contro il dolore cronico vengono prescritti soprattutto farmaci antinfiammatori: solo al 9% dei malati si danno oppiodi deboli

Sono 15 milioni gli italiani che ogni giorno si trovano ad affrontare problemi di sofferenza e dolore fisico a causa di malattie, ma la terapia del dolore in Italia è ancora ai pali. Lo rivela una ricerca condotta in Europa dall’Associazione italiana per lo studio del dolore (www.aisd.it), che ha evidenziato anche le differenze di assistenza tra Paese e Paese. In Italia poco meno di un quarto della popolazione accusa sofferenza (uno su 5 è la media europea) e la metà dei malati soffre 10 anni prima di curare il dolore. «Ma la cura è spesso inadeguata — dice Giustino Varrassi dell’Aisd — e la metà dei pazienti abbandona il trattamento». Il dolore cronico nel nostro Paese è trascurato per diversi motivi, come spiega Cesare Bonezzi, responsabile del Centro di terapia del dolore della Fondazione Maugeri di Pavia: «L’utilizzo degli antidolorifici più potenti, come morfina e oppiacei, per il controllo del dolore cronico non legato alla malattia neoplastica, risente di pregiudizi e inadeguata conoscenza dell’efficacia e degli effetti collaterali di tali farmaci. A ciò si aggiunge una scarsa distribuzione sul territorio di Centri per la terapia del dolore». Precisa il dottor Furio Zucco, responsabile della terapia del dolore all’ospedale di Garbagnate (Milano): «Una intesa Stato-Regioni, nel 2001, ha varato un provvedimento sulla terapia del dolore, con l’obiettivo di creare "Comitati per l’ospedale senza dolore", senza però nè obblighi nè corrispettivo economico.

Di fatto, ogni Regione ha interpretato a modo suo l’accordo, alcune non lo hanno applicato». Ci sono, tuttavia, anche esperienze positive, come quella della Ulss 6 di Vicenza, dove Marco Visentin, direttore dell’Unità di terapia del dolore e cure palliative, ha realizzato con i medici di famiglia e gli specialisti una rete che può far fronte alla forme di dolore provocato da diverse cause: dal mal di schiena, alle neuropatie, dalle vasculopatie, alle malattie reumatiche, fino alle malattie tumorali. «Oggi il dolore — aggiunge Visentin — si può risolvere nel 90% dei casi. Per esempio, nella fase post operatoria, evitarlo significa far guarire prima e meglio». Anche il non profit si occupa del problema e per sensibilizzare l’opinione pubblica è nata la Fondazione Anna Merzagora, in memoria di una signora, morta per tumore, che soltanto nell’ultimo periodo del suo calvario ha potuto scoprire che tante sofferenze sarebbero state evitabili. «Per questo — spiega il marito, Sergio Cesa — ho voluto creare un sodalizio che promuova la conoscenza e la diffusione della terapia del dolore, realizzando anche un libretto dal titolo "Liberi dal dolore"(sul sito www.ildoloredianna.org) e avviando corsi di formazione per medici e specializzandi nel reparto di terapia del dolore della Fondazione Maugeri di Pavia».

da un articolo di: Edoardo Stucchi

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Saturday, July 15, 2006

Dolore cronico: ascoltare musica lo riduce

La musica aiuta a lenire il dolore cronico. In particolare ascoltare musica distrae il pensiero dal dolore e migliora l’umore. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Journal of Advanced Nursing.

Lo studio è stato condotto da Sandra Siedlecki, della Cleveland Clinic Foundation, e dai suoi collaboratori; al trial hanno partecipato sessanta volontari di età media intorno ai 50 anni con esperienza di dolore cronico legata soprattutto a patologie quali l’osteoartrite e l’artrite reumatoide.
I volontari sono stati divisi in due gruppi uno dei quali ha ascoltato, per sei mesi, musica almeno per un’ora al giorno. Il tipo di musica è stata scelta dagli stessi pazienti a seconda dei loro gusti e la maggior parte di loro ha prediletto la musica melodica.
Secondo quanto emerso dalle interviste fatte ai volontari circa la percezione del dolore risulta che il gruppo che ha inserito la musica nella pratica quotidiana ne ha tratto beneficio in termini di percezione del dolore. Ma non solo. Secondo i ricercatori l’ascolto della musica produce piacere e forse effetti benefici sulla salute perché induce una alternanza controllata tra eccitazione e rilassamento. Un’appropriata selezione di brani musicali, composta di brani veloci e lenti intervallati da pause, potrebbe essere utilizzata come trattamento per indurre il rilassamento e avere effetti benefici nell’ambito della terapia delle patologie cardiovascolari.

“I partecipanti allo studio hanno dichiarato di aver tratto beneficio dall’ascolto della musica non solo nell’umore ma anche nella percezione del dolore. Per molti di loro essersi leggermente affrancati dal dolore cronico ha significato riprendere una vita normale che prima avevano abbandonato”, ha dichiarato la Siedlecki.
“Da anni ci occupiamo degli effetti della musicoterapia sul dolore e questo studio è per noi di forte incoraggiamento”, ha concluso la ricercatrice.

Fonte: Cleveland Clinic Foundation

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Thursday, July 13, 2006

Affrontare la perdita

CONOSCERE IL LUTTO

Quando pensiamo alla perdita di una persona che amiamo—a cui siamo legati da affetto, amore, amicizia—abbiamo inevitabilmente reazioni emotive intense. Il lutto è, infatti, una reazione normale di fronte alla consapevolezza di essere sul punto di perdere qualcuno o di fronte alla perdita già avvenuta. E’ un percorso doloroso e faticoso, necessario affinché si stabilisca un adattamento alla nuova situazione di vita. Affrontare e accettare le ripercussioni che si sono avute in seguito alla perdita, ci permette in qualche modo di superarla. Tutti incontriamo e dobbiamo affrontare, nel corso dell’esistenza, un lutto ma ciascuno di noi lo vive in tempi e modi molto personali e differenti, a seconda dell’età e del carattere, della cultura e del sistema di valori, delle esperienze passate di perdita e della possibilità di ricevere supporto. Anche i membri di una stessa famiglia possono vivere il lutto in maniera diversa, in base alle proprie personali caratteristiche e al tipo di relazione con la persona malata.
Il modo di vivere un lutto dipende:

· da come, nella nostra vita, abbiamo affrontato altri momenti di crisi;
· da cosa perderemo insieme alla vita della persona cara (anche una parte del nostro vivere);
· da quale relazione si è stabilita con questa persona e dai progetti dhe abbiamo fatto insieme a Lei;
· da quando si è verificata la sua morte: a quale punto del nostro ciclo di vita, e del ciclo di vita della persona cara;
· dalle circostanze (improvvise o graduali), in cui è avvenuta la perdita.

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Thursday, July 06, 2006

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

IPNOSI EFFICACE NELL'ALLEVIARE I DOLORI DA CANCRO

L'ipnosi può alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita dei pazienti colpiti dal cancro. A sostenerlo è Christina Liossi, dell' University of Wales di Swansea, nel Galles.
L'ipnosi è stata già sperimentata per aiutare a smettere di fumare, a perdere peso e superare le fobie e, secondo alcuni studiosi il potenziale terapeutico reale di tale pratica rimane ancora non sfruttato.
Secondo la Liossi, c'è la prova medica che l'ipnosi contribuisce ad alleviare la depressione, la nausea, il vomito ed il dolore sofferti dai pazienti colpiti dal cancro.

C'è, inoltre, la possibilità che l'ipnosi possa aumentare la sopravvivenza dei pazienti colpiti, ma le prove per sostenerlo non sono ancora sufficienti.
La Liossi ricorda come sia noto che l'ipnosi può influenzare il sistema immunitario. Una novità emersa durante la conferenza annuale della British Association for for the Advancement of Science. Negli studi sui bambini che soffrono di cancro, la Liossi ha osservato che dei giovani sottoposti ad ipnosi, e ai quali sia stato somministrato un anestetico locale, percepiscono meno dolore durante l'intervento medico rispetto a coloro che non sono stati ipnotizzati.

Il professor John Gruzelier, dell'Imperial College di Londra, che ha usato la tecnica cosiddetta del “brain-imaging” per visualizzare l'attività del cervello, ritiene che i cambiamenti che interessano il cervello sotto ipnosi potrebbero contribuire a spiegare alcuni dei meccanismi secondo cui essa funziona e spiegare come mai chi è sotto all'ipnosi obbedisca a quanto chiesto. In ogni caso, pur non essendoci ancora prove definitive su come funzioni, l'ipnosi è uno strumento terapeutico magnifico.

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Monday, July 03, 2006

Danni sul cervello e sul cuore

Per la cocaina si è sempre detto: smetto quando voglio e non fa male. Niente di più illusorio, ovviamente, come hanno dimostrato i recenti casi di cronaca. Ma non solo. A parte la dipendenza psicologica, non sono forse molto noti gli effetti nefasti sulla salute. La cocaina sarebbe in grado, ad esempio, di provocare mutazioni dei nostri geni, secondo uno studio del Cnr di Pisa, e quindi possibile causa anche di tumore, sia pure a medio-lungo termine.


Ci sono però anche una serie di effetti a "medio-breve"termine. I principali quadri clinici determinati dall'uso costante di cocaina, presentati al congresso di Verona dal prof. Oliviero Bosco del centro di medicina preventiva di Verona, riguardano svariate patologie e complicanze. In cardiologia, dai dati di uno studio americano su 232 pazienti cocainomani presentatisi in pronto soccorso dal '99 al 2003, si sono riscontrate patologie che vanno dalla cardiopatia ischemica, all'infarto (le patologie piu frequenti correlate all'uso di cocaina), alla flebite e l'edema polmonare. Le convulsione sono le complicanze neurologiche più assidua osservate nel 53% dei pazienti che si presentano alle strutture di ricovero, mentre l'insorgenza di ictus è stata osservata come la complicanza piu dannosa in ambito vasco-cerebrale.

Il vasospasmo arterioso, l'attivazione dell'aggregazione piastrinica e l'induzione dei quadri vasculitici cerebrali, causati dalla cocaina nel nostro corpo, potrebbero spiegare l'insorgenza dell'ictus anche a distanza di tempo. Nel 50% dei casi analizzati, l'ictus è comunque insorto subito dopo una assunzione di overdose.

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Friday, June 23, 2006

Aspetti psicologici nel dolore postoperatorio

Aspetti psicologici nel dolore postoperatorio

La caratteristica più importante del dolore acuto ed in particolare del dolore postoperatorio deve addebitarsi all’ansia.

L’ansia preoperatoria è relativa all’ansia di attesa di un qualcosa che non si conosce e, proprio per questo, si teme ancora di più. Tutto il periodo antecedente all’operazione è vissuto nell’ambito del ricovero ospedaliero, con una serie di esami di routine che introducono al giorno prestabilito per l’intervento. All’ansia si accompagnano tutta una serie di paure che spesso sono strettamente collegate a pregiudizi culturali, ad apprendimenti diretti o per modellamento che contribuiscono ad alzare il gradiente di incertezza.

I rapporti interpersonali precedenti all’operazione sono fatti di comunicazioni monotematiche sia con i familiari che con altri pazienti nelle sale d’aspetto degli specialisti oppure già direttamente nella camera ospedaliera. In più possono aggiungersi preoccupazioni di tipo affettivo nei riguardi dei familiari, logistiche per la distanza dall’ospedale e le difficoltà di spostamento, lavorative per l’assenza dal posto di lavoro e per il dubbio di poter riprendere l’attività in tempi brevi o addirittura di perdere l’impiego, economiche perché il fermo momentaneo ha comportato una serie di spese non indifferenti a fronte di una carenza di ricavi, progettuali in relazione al dubbio di poter effettivamente raggiungere gli obiettivi proposti. Le paure principali sono superficialmente legate all’esito dell’operazione e all’anestesia, ma in profondità aleggia la paura della morte.

Nonostante ci sia fiducia nello staff medico, la probabilità che l’operazione non riesca perfettamente o possano esserci delle complicazioni turba in modo quasi ossessivo il paziente che pesca nella sua memoria tutti i racconti e le informazioni a sostegno di questa ipotesi negativa.
L’anestesia è vissuta da molti pazienti come una tecnica capace di far perdere il controllo della coscienza, di far dire cose inopportune, di perdere la consapevolezza di quanto sta avvenendo, di perdere il controllo delle proprie facolta` mentali.

Un effetto ansiogeno legato ai timori rispetto all’anestesia è la paura di perdere il controllo. Si tratta di una paura che il paziente tenta di ridurre aumentando il controllo stesso e ponendo una resistenza psicologica all’abbandono ai farmaci anestetici. Questo tipo di strategia produce un’ansia che si esaspera al risveglio, quando si ha paura di dire sciocchezze o di averne dette durante l’anestesia

L’ansia che interviene dopo l’operazione può causata da tre fattori principali:
il primo è lo spavento come reazione al dolore che insorge non appena scompare l’effetto dell’anestesia;

il secondo è l’insicurezza. Il paziente non sa che cosa aspettarsi dopo l’intervento anche se aveva fatto delle previsioni. La realtà composta di sensazioni strane e dolorose.

Il terzo è l’incapacità a fronteggiare la nuova situazione per la quale deve dipendere da qualche personaggio esterno come il medico o l’infermiere.

Questi tre fattori interagenti aumentano il livello di ansia e, di conseguenza, innescano un circolo vizioso che abbassa la soglia del dolore aumentandone la percezione.
Sono stati evidenziati molteplici fattori che influenzano l’insorgenza, il tipo, la durata e l’intensità del dolore postoperatorio.

Il primo fattore riguarda il paziente con le sue caratteristiche fisiche e psicologiche.
Il secondo è relativo alla tecnica e alla sede di intervento.
Il terzo si riferisce alla preparazione preoperatoria comprendente aspetti fisici, farmacologici e psicologici.
Il quarto fattore che influenza il dolore postoperatorio è rappresentato dall’eventuale insorgenza di complicazioni relative all’intervento.
Il quinto è strettamente correlato alla tecnica anestesiologica.
Infine il sesto riguarda la qualità dell’assistenza postoperatoria.

Ansia
Nel 1958 Janis aveva elaborato un modello curvilineo dei rapporti tra livelli di ansia pre-operatori e post-operatori. Secondo questo modello un livello moderato di ansia prima dell’operazione chirurgica predice un recupero post-operatorio soddisfacente mentre livelli troppo bassi o troppo elevati peggiorano l’impatto con l’intervento. Prima dell’intervento il paziente aumenta il proprio livello di attivazione emozionale ed inizia a svolgere quello che Janes ha definito "compito di preoccuparsi" cioè una vera e propria preparazione psicologica rispetto agli agenti stressanti. Invece pazienti con un accentuato atteggiamento difensivo non hanno ansia preoperatoria e risultano impreparati rispetto agli stress favorendo un recupero postoperatorio difficoltoso.

Queste caratteristiche non sono state confermate da ricerche successive.
Spielberger e coll. hanno proposto il modello dell’ansia di stato e ansia di tratto che ha trovato una quantificazione nello specifico test S.T.A.I. A partire da questa formulazione gli studi seguenti hanno evidenziato , invece di una relazione curvilinea, una correlazione lineare positiva fra l’ansia preoperatoria e l’ansia postoperatoria. Pertanto a bassi livelli di ansia preoperatoria corrispondono bassi livelli di ansia postoperatoria, mentre ad alti livelli iniziali corrispondono anche livelli finali elevati.

Locus of Control
Oltre all’ansia si presentano anche fattori relativi al controllo. Questi non sono solamente relativi alla paura di perdere il controllo della coscienza, di dire cose inopportune, di perdere la consapevolezza di quanto sta avvenendo, di smarrire il controllo delle proprie facolta` mentali.
Esiste anche un controllo di tipo attivo sulla capacità personale di venir fuori bene dall’operazione, o sulla fiducia allo staff medico o sul caso e la fortuna che può assistere il paziente.
In generale la reazione del paziente con gli eventi stressanti è stata studiata alla luce del paradigma del controllo interno od esterno utilizzando la scala di Rotter. Sul piano specifico del dolore postoperatorio gli studi relativi alla chirurgia orale hanno evidenziato che i pazienti che si esprimono con un controllo interno recepiscono meglio le informazioni specifiche sull’operazione, mentre i pazienti a controllo esterno beneficiano maggiormente di informazioni generiche. Nonostante queste evidenze le ricerche sul locus of control non sono riuscite a stabilire una correlazione chiara e statisticamente significativa fra questo costrutto e l’ansia e il dolore postoperatorio.

Prospettive
L’importanza dei fattori psicologici non è rimasta nei polverosi scaffali della ricerca ed è stata recepita a livello clinico, portando all’elaborazione di specifici programmi di preparazione psicologica preoperatoria.
Permangono ancora tutta una serie di problemi legati all’uso degli specifici strumenti per individuare i fattori psicologici e la loro effettiva e significativa relazione con la ripresa postoperatoria.

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Thursday, June 15, 2006

Emicrania

Questione di pompa

Su Nature Genetics un bel lavoro sponsorizzato Telethon in collaborazione tra il Dibit-Ospedale San Raffaele a Milano e vari dipartimenti neurologici italiani tra Grosseto, Messina e Palermo. Si è scoperta una mutazione in un gene di nome ATP1A2 che è responsabile di una rara forma ereditaria dell'emicrania, la cosiddetta 'emicrania emiplegica tipo 2'. Emiplegica in quanto la cefalea è accompagnata da forti deficit neurologici, come ad esempio la paralisi di un lato del corpo (emiplegia), che sono comunque transitori e regrediscono completamente. Il fenomeno è simile alla classica 'emicrania con aura' in cui il termine 'aura' descrive sintomi neurologici focali in genere più leggeri come disturbi visivi, formicolii, vertigini oppure difficoltà del linguaggio. Non si conoscono bene i meccanismi che scatenano l'attacco acuto dell'emicrania. Un fenomeno centrale sembra la 'cortical spreading depression', una riduzione circoscritta della attività della corteccia cerebrale. In questo fenomeno sono coinvolte alterazioni delle proprietà elettriche delle cellule nervose. Ebbene, la mutazione scoperta adesso disattiva parzialmente la pompa dei ioni del sodio e del potassio, una proteina della membrana cellulare che costituisce il motore fondamentale per conservare la carica elettrica delle cellule muscolari e nervose (pompando il sodio Na+ dall'interno all'esterno e il potassio K+ dall'esterno all'interno della cellula, v. figura). È la prima volta che viene scoperta una mutazione nel gene di questa pompa. La mutazione rallenta la regolare funzione della pompa (sostenuta comunque dal gene intatto ereditato da uno dei due genitori). Già nel 1997 erano state descritte mutazioni di un altro gene per una proteina della membrana cellulare che costituisce un tipo dei 'canali del calcio', anch'essi importanti a determinare le proprietà elettriche della membrana. Una recente pubblicazione ha poi dimostrato l'efficacia di un antagonista di questi canali per trattare l'emicrania emiplegica. La nuova scoperta apre una bella prospettiva sui meccanismi dell'emicrania e lo sviluppo di ulteriori terapie (v. anche questa recente notizia su neurologia.it). La scoperta è di interesse particolare, anche perchè la pompa costituisce uno dei primi argomenti che si studiano in neurobiologia ed è molto ben analizzata nel suo funzionamento. Disturbi transitori della sua funzione potrebbero essere responsabili della comune emicrania con e senza aura.

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Sunday, June 11, 2006

Quando La psicoterapia può far bene all’Artrite

Interessanti conclusioni di una ricerca dell’Università di Sidney su cinquanta malati

Un gruppo di ricerca inglese, guidato dall’australiano L. Sharpe, del dipartimento di psicologia clinica dell’Università di Sidney, ha pubblicato, sul numero di marzo di Rheumatology, i risultati di uno studio che «aggiunge evidenza», come si dice, agli effetti curativi della psiche su tipiche malattie organiche, come l’artrite reumatoide. Otto settimane di psicoterapia, in aggiunta al trattamento medico standard, hanno avuto effetti positivi significativi sul decorso della malattia. I ricercatori hanno diviso cinquanta persone, con una diagnosi di artrite reumatoide da circa dodici mesi, in due gruppi, formati a caso: tutti e due sono stati visitati dalla stessa équipe medica, hanno ricevuto lo stesso trattamento farmacologico, hanno riempito gli stessi questionari per valutare lo stato dell’umore e il livello di disabilità.

A uno dei due gruppi, però, è stato aggiunto un trattamento di psicoterapia: una seduta individuale di un’ora, una volta a settimana, per otto settimane consecutive. Dopo un anno e mezzo dalla fine dello studio, molto netta era la differenza riguardo al tono dell’umore: i livelli di ansia e depressione erano molto più alti e diffusi tra i non trattati con psicoterapia. Ma questo era prevedibile.Meno prevedibili, per chi ha una visione diciamo classica della reumatologia, sono i risultati sull’andamento della artrite misurata come disabilità. Infatti: il 52 per cento del gruppo in solo trattamento farmacologico, dopo 18 mesi, era peggiorato, a fronte del 13 per cento del gruppo con in più la psicoterapia. In quest’ultimo, i «molto migliorati» sono stati addirittura il 30 per cento, contro il 10 per cento del gruppo che ha usato solo farmaci. Insomma, differenze davvero notevoli riguardo all’andamento di una malattia, che causa molte sofferenze e che ancora è difficile da trattare.

Ma perché si cercano nuove terapie? Perché il quadro è desolante. «Nei primi due anni di malattia, nonostante il trattamento», scrivono Raphael Goldbach e Peter E. Lipsky della Direzione del National institute of arthritis and musculoskeletal diseases, a Bethesda in Usa, «il 70 per cento dei pazienti presenta distruzione articolare documentata radiograficamente.Dopo 10 anni di malattia, si arriva al 90 per cento». E la conclusione di questo studio, comparso su Annual Reviews of Medicine 2003, non è proprio incoraggiante: «Nonostante i progressi nelle terapie, solo una piccola parte di pazienti va in remissione».

Ecco perché lo studio di cui abbiamo parlato, può rappresentare una alternativa terapeutica importante, che, alla lunga, visti i guadagni in termini di disabilità, può dimostrarsi anche meno costosa del solo trattamento farmacologico. Con un’avvertenza: l’aggiunta del trattamento psicoterapeutico è efficace se instaurata precocemente.

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Thursday, June 08, 2006

Quell' invisibile terapia del dolore

Secondo un recente sondaggio, quattro persone su cinque non sanno neppure che in Italia esistono specialisti e di ambulatori ad hoc.
articolo di :
Donatella Barus


MILANO
– Negli ultimi anni il consumo dei farmaci a carico del Sistema Sanitario Nazionale per il trattamento del dolore è quasi triplicato e la spesa per questi medicinali è raddoppiata, ma 4 italiani su 5 neppure sanno che esistono medici e centri specializzati in questo settore.
Dai dati di un sondaggio condotto dalla Ipsos a metà maggio, infatti, solo il 22 per cento degli intervistati è a conoscenza del fatto che ci sono terapie mirate a lenire la sofferenza dei malati, e si tratta perlopiù di donne (non a caso, le più coinvolte nell’impegno di cura di anziani e infermi), di persone istruite, con uno status socio-economico elevato e residenti nelle regioni settentrionali. Spicca una forte carenza di informazioni, invece, nel centro-sud e tra i più giovani, che in larga parte ancora non hanno dovuto confrontarsi con queste problematiche. In generale, poi, la terapia del dolore in Italia continua ad avere il sapore di un’occasione mancata, per cui 24 persone su cento hanno avuto esperienza diretta (personale o di un familiare) di un dolore cronico, ma soltanto la metà, il 12 per cento, dichiara di avere fatto ricorso a cure antalgiche specifiche.
Questo quadro, che illustra bene quanto ci sia ancora da fare sul fronte dell’informazione per i pazienti e le loro famiglie, è stato delineato in occasione della presentazione della Quinta Giornata nazionale del Sollievo, promossa dalla Fondazione Nazionale “Gigi Ghirotti”, dal ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e prevista quest’anno per domenica 28 maggio. Scopo dell’iniziativa (vedi gli eventi nelle diverse Regioni) è proprio aumentare la soglia di consapevolezza e di sensibilità sul diritto a non soffrire e, al tempo stesso, intaccare la barriera di solitudine e isolamento che imprigiona molti malati, anche oncologici.
Insiste sull’informazione dei cittadini anche il neo-ministro della Salute LiviaTurco, che domenica ha inaugurato il suo mandato celebrando la Giornata presso il Policlinico Gemelli a Roma e che in un messaggio a Bruno Vespa, presidente della Fondazione Ghirotti, afferma di voler affrontare le evidenti «difficoltà di orientamento» dei pazienti: «Si fa fatica - dice - ad entrare in possesso delle informazioni giuste, a sapere con certezza quale è la struttura più idonea alla quale rivolgersi, qual è il percorso più virtuoso». E stila una lista delle cose da fare «con urgenza», includendo la «sburocratizzazione» della prescrizione dei farmaci oppiacei (cioè eliminare l’ostacolo ancora ingombrante del ricettario speciale), l’obbligo dell’aggiornamento per gli operatori, con un occhio di riguardo per i medici di medicina generale, il sostegno all’applicazione negli ospedali delle linee guida per un Ospedale senza dolore, prima fra tutti la misurazione del dolore e la sua registrazione come parametro vitale all’interno della cartella clinica.
Il nostro Paese, in effetti, non riesce a staccarsi dalla posizione di fanalino di coda, in Europa e nel mondo, nelle graduatorie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’utilizzazione di farmaci oppiacei, anche se le nuove norme in materia hanno rivoluzionato l’accesso a questo tipo di analgesici. Come dicevamo, la spesa del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in questo settore è passata da 34,5 milioni di euro nel 2004 a 60,9 milioni nel 2005, mentre nello stesso periodo il consumo in dosi dei medicinali per il trattamento del dolore rimborsati ai pazienti è passato da 7,9 milioni a oltre 22 milioni di dosi, secondo l’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, grazie alla rimborsabilità di nuovi preparati e alla disponibilità di nuove confezioni di medicinali già rimborsati. Unico neo, un calo del consumo di morfina che, sostiene l’AIFA, «rimane il trattamento di base del dolore grave e la cui prescrizione è stata sostituita con farmaci molto costosi per via transdermica (i “cerotti”, ndr), ma non più efficaci o parimenti efficaci della morfina per via orale». Non è estranea a questo stallo una certa ambiguità introdotta dalla nuova legislazione in tema di sostanze stupefacenti che non distingue a dovere tra uso terapeutico e abuso gratuito, stando al parere di addetti ai lavori di tutto rispetto, come Franco Caprino, segretario nazionale di Federfarma, e Franco Henriquet, anestesiologo genovese da vent’anni anima della Fondazione Ghirotti.

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