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Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

Wednesday, November 14, 2007

La Terapia del Dolore DEL DOLORE

Le Cure Palliative
Da un lavoro di :
Franco De Conno

Divisione di Riabilitazione e Terapie Palliative

Istituto Nazionale Tumori, Milano

Le cure palliative possono essere definite come "il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive ed irreversibili, attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più della patologia che ne è la causa". Lo scopo principale delle cure palliative è quello di migliorare anzitutto la qualità di vita piuttosto che la sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale (Ventafridda, 1990).

L’indiscutibile progresso ottenuto dalla medicina sia in campo diagnostico che terapeutico ha condotto ad una serie di conquiste un tempo considerate irrealizzabili, ma questo estremo tecnicismo mal si adatta alla cura del paziente terminale.

La peculiarità della medicina palliativa è il nuovo approccio culturale al problema della morte, considerata non più come l’antagonista da combattere ma accettata a priori come evento inevitabile. Da questa premessa teorica nasce una pratica clinica che pone al centro dell’attenzione non più la malattia, ma il malato nella sua globalità (Corli, 1988).

La consapevolezza della morte induce un’attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla sofferenza di chi sta per morire. Come riporta Spinsanti "la medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non dunque una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte" (Spinsanti, 1988).

Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione al dettaglio, a tutto quello che si può e si deve fare quando "non c’è più niente da fare": l’attenzione alla vita del paziente, anche se brevissima, privilegiandone gli aspetti qualitativi e arricchendo ogni suo istante di significati e di senso; la capacità di ascoltare, dare presenza, restaurare i rapporti umani ed entrare in rapporto emotivo con pazienti e familiari. Infine, una corretta "filosofia" nell’approccio palliativo deve comprendere la capacità di saper riconoscere i propri limiti come curanti e terapisti, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte per la salute psicofisica dell’essere umano. Cure palliative non vogliono dire eutanasia, ma sono l’espressione di un approccio medico basato su conoscenze scientifiche e sull’attenzione continua nella loro applicazione.

Queste nozioni richiedono un nuovo tipo di educazione accademica a livello universitario e postuniversitario (Hillier, 1998; Kearney, 1992). La preparazione di questi medici è più che mai necessaria. Non si intende medicalizzare la morte, ma offrire un aspetto umano a situazioni disumane finora trascurate e viste con indifferenza. Parlare invece di curare, di qualità di vita, di impatto della malattia e/o dei trattamenti, di controllo dei sintomi, significa richiamarsi ad un modo diverso di intendere la realtà. La malattia non è soltanto il fenomeno morboso in quanto tale, ma anche e particolarmente l’esperienza che di questo fenomeno ha il soggetto ed in particolare i vissuti di sofferenza, dolore, stanchezza, le paure, gli aspetti psicologici e relazionali. Da queste considerazioni è nata l’esigenza di proporre un’assistenza peculiare per i malati di cancro in fase avanzata che presentino dolori o altri sintomi. Le cure palliative sono rivolte soprattutto ai pazienti colpiti da cancro. Dai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si comprendono rapidamente le dimensioni del problema: vengono diagnosticati ogni anno 5.9 milioni di nuovi casi di cancro di cui 4.3 milioni giungono a morte. Il rischio di ammalarsi di tumore è in costante aumento nella maggior parte dei paesi sia per l’aumento della durata media della vita sia per l’aumento dei fattori di rischio.

In campo oncologico le terapie specifiche del cancro, chirurgia e chemio-radio-immunoterapia, praticate singolarmente o in associazione tra loro, hanno lo scopo di guarire il paziente eliminando o riducendo la massa tumorale e restituendogli l’integrità fisica. Quando la massa tumorale diviene insensibile a tali trattamenti ed evolve inesorabilmente creando sofferenze fisiche e psicologiche, non vi è più la possibilità di guarire il malato. Il medico vive una sensazione di sconfitta che può portare da un lato all’accanimento terapeutico e dall’altro all’abbandono del malato perché "non c’è più niente da fare". E’ il momento in cui il paziente si avvia verso l’exitus e la famiglia si trova sola con il proprio dolore, la paura, la depressione. Questa è la fase delle cure palliative.

Le cure palliative si rivolgono anche a tutta una serie di patologie che, pur non essendo neoplastiche, sono considerate inguaribili. Molte malattie croniche che colpiscono gli anziani sono in realtà inguaribili: possono creare individui a rischio di perdita di autonomia, ma in questo caso non si può parlare di malati in fase terminale. Solo quando le condizioni fisiche si deteriorano rapidamente, ogni intervento diviene inefficace e la morte è prevista come la soluzione inevitabile in tempi relativamente brevi, si può parlare di fase terminale della vita.

Non è facile identificare i pazienti in fase terminale in quanto non esiste sempre una semplice e netta separazione tra il periodo in cui l’individuo continua a vivere, sia pur sotto il peso della malattia e delle limitazioni ad essa conseguenti, e la fase in cui il processo si fa rapidamente evolutivo e la fine si avvicina. A volte il passaggio ad uno stato di deterioramento fisico e psichico e di dipendenza personale avviene gradualmente come nel caso di insufficienze d’organo croniche, malattie neurologiche e psichiatriche.

Per arrivare ad un intervento sanitario-assistenziale efficace, continuativo e riproducibile, le cure palliative in Italia dovevano cercare una strada nell’ambito della medicina ufficiale e scientifica prendendo in considerazione esperienze già consolidate. Il costante punto di riferimento di tutte le iniziative nei confronti dei malati inguaribili è stato il movimento "Hospice" anglosassone.

La prima iniziativa, strutturata per offrire una risposta pratica e scientifica ai problemi del malato morente, per istituire cioè un sistema di cure palliative, è un fatto piuttosto recente e si collega al movimento Hospice nato negli anni Sessanta grazie a Cicely Saunders fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra.

L’Hospice fornisce supporto ed assistenza a chi si trova nella fase terminale di una malattia inguaribile, per consentirgli di vivere la vita residua in pienezza e nel modo più confortevole possibile. Da un punto di vista organizzativo l’Hospice è una struttura intraospedaliera o isolata nel territorio che ha in parte le caratteristiche della casa, in parte quelle dell’ospedale. è un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo, medico, assistenziale, psicologico, spirituale al fine di migliorarne la qualità di vita. Favorisce una personalizzazione delle cure ed una presenza continua di familiari e conoscenti vicini al malato.

In Italia la carenza di strutture sanitarie specializzate tipo Hospice e reparti di cure palliative fa sì che la casa del malato diventi il luogo di cura più idoneo.

è chiaro come la scelta tra casa e ospedale si pone come una alternativa tra naturalità della sofferenza e rimozione in un ambiente "estraneo". Nel momento in cui le necessità diagnostiche e terapeutiche possono comunque trovare una adeguata risposta, assistere un malato di cancro in fase avanzata in ospedale rappresenta una scelta che rende "diverso" questo periodo di sofferenza, come se questa stessa sofferenza non fosse una consueta componente dell’esperienza umana.

Certamente esistono dei casi in cui l’ospedalizzazione rappresenta la scelta migliore, sia perché adeguata ad affrontare le necessità terapeutiche del malato che per permettere al paziente o ai suoi familiari di appoggiarsi ai sanitari in un momento troppo difficile.

Per i familiari, la scelta del domicilio può anche rappresentare la volontà di vivere in prima persona un momento, una situazione particolarmente profonda e carica di significati anche affettivi, senza delegarla all’istituzione sanitaria. La tradizionale prassi del ricovero ospedaliero non fornisce, in genere, particolari supporti salvo allentare il peso assistenziale che grava sui familiari. L’assistenza domiciliare non rappresenta la soluzione più idonea se non ci si fa carico anche degli aspetti più squisitamente psicologici e relazionali del rapporto assistenziale. La soluzione domiciliare non rappresenta una panacea, ma anzi, se realizzata in modo improprio, produce essa stessa ulteriore sofferenza, in quanto elimina la presenza rassicurante e le risorse dell’ospedale senza fornire un supporto ugualmente autorevole e valido. Gli studi di Parkes (1980, 1985) hanno messo in evidenza come l’assistenza domiciliare possa risultare un elemento di disagio, quando non condotta da personale competente nel controllo del dolore e degli altri sintomi.

Nel proporre una strada alternativa all’ospedalizzazione i risultati devono essere almeno equivalenti, se non migliori, anche per quanto riguarda il controllo del dolore e degli altri sintomi. A questo proposito non esistono molti dati disponibili. Parkes segnala come il controllo del dolore a casa fosse ancora insoddisfacente per un campione di pazienti seguiti nel periodo 1977-79, sebbene i risultati fossero migliorati rispetto ad un lavoro precedente (Parkes, 1980). La preferenza per una somministrazione orale, la ricerca di terapie personalizzate e ad orario fisso vanno nella direzione di permettere una terapia anche domiciliare con la maggior parte dei pazienti.

Uno studio di Ventafridda et al. (1989) ha cercato di confrontare le due forme di assistenza su parametri sia clinici, che psicosociali, che economici. I risultati ottenuti su due campioni di 30 pazienti ciascuno (un gruppo seguito a casa, l’altro seguito in ospedale) non hanno mostrato alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda il controllo del dolore, il numero dei sintomi, il numero di ore di sonno. Migliori condizioni sono state riportate dal gruppo domiciliare nel grado di attività dopo due settimane di assistenza nel giudizio globale di qualità di vita, ottenuto con Spitzer (1981).

Assistere a casa presuppone innanzi tutto il rispetto delle preferenze del malato nella decisione tra casa e ospedale, spesso assai più complesse e personali rispetto a valutazioni esterne (Hinton, 1979). In una indagine effettuata in Italia, 139 pazienti in fase terminale su 165 hanno dichiarato di preferire l’assistenza a casa. Poiché i bisogni del malato sono di natura diversa, è corretto affrontarli utilizzando specifiche competenze e specifici strumenti: poiché tali bisogni non sono di esclusiva competenza medica, l’équipe deve comprendere varie figure professionali. Nel servizio si possono distinguere due gruppi, che lavorano a contatto, ma che si propongono in due momenti diversi d’intervento. Il primo è composto da quattro figure basilari nell’assistenza domiciliare:

  • familiare leader
  • medico domiciliare
  • infermiere domiciliare
  • volontario.
Questo gruppo costituisce l’unità mobile di intervento, l’estensione extramurale del servizio di cure palliative.

Il secondo gruppo è rappresentato da figure professionali di raccordo tra il servizio e la casa. La loro collocazione è in un certo senso di supporto nei confronti dell’équipe domiciliare propriamente detta ed il loro lavoro sul malato è di solito indiretto. Essi sono:

  • psicologo
  • assistente sociale.
Il malato diviene quindi il centro dell’attenzione di diversi specialisti che devono lavorare insieme in modo coordinato. Ciò richiede informazioni le più precise e tempestive possibili e un collegamento continuo. Inoltre l’équipe si riunisce settimanalmente al completo per prendere di comune accordo le decisioni che riguardono sia l’aggiustamento delle terapie che l’atteggiamento comune da adottare da parte degli operatori sanitari e volontari nei confronti del malato e della famiglia. Occuparsi di un malato terminale significa infatti confrontarsi continuamente con i bisogni del malato e della sua famiglia. Più spesso nel paziente oncologico l’idea della morte si palesa solo quando la progressione della malattia obbliga il paziente a dipendere fisicamente e socialmente da altre persone.

La perdita del ruolo sociale e familiare e la nascita di nuovi rapporti dipendenti dallo stato di malattia vengono a pesare fortemente sull’emotività del paziente. L’adattamento alle limitazioni fisiche imposte dal progredire della malattia e la conservazione della propria dignità spesso sono resi difficili dalla mancanza di adeguate condizioni socio-ambientali.

I problemi più rilevanti sono quelli psicologici, anche se la connessione con i problemi fisici è in molti casi diretta. Perdita dell’identità che, a seconda della diverse condizioni fisiche e socio-economiche, si concretizza in differenti significati:

  • perdita del ruolo professionale ed economico
  • perdita del ruolo nell’ambito familiare
  • declino delle capacità intellettuali.
Oltre alla sofferenza e alle conseguenze emotive prodotte dalla malattia e dagli effetti collaterali delle terapie, ritroviamo nell’ammalato:
  • la paura che il dolore possa divenire incontrollabile
  • la paura di morire
  • la paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico
  • la preoccupazione di perdere il proprio ruolo in famiglia e sentirsi di peso.
Un’altra situazione che il paziente terminale si trova ad affrontare in seguito alla dipendenza fisica e sociale è la riattivazione di ogni genere di problema non risolto prima e il riaffiorare di questioni personali mai portate a termine, che spesso interessano il rapporto con gli altri. Nel prendersi cura del malato non si deve dimenticare la sua famiglia che ha bisogno di essere educata, sostenuta e confortata per poter aiutare l’ammalato in tutto l’iter della malattia fino al decesso.

Per i familiari la malattia inguaribile e mortale costituisce una dura prova esistenziale: al dramma della sofferenza e della perdita di una persona si aggiungono molteplici problemi che si radicalizzano sovrapponendosi ed intrecciandosi gli uni con gli altri e per lo più trovano i familiari impreparati ad affrontarli. Le questioni sono di tre ordini:

  • problemi affettivi e personali
  • problemi della comunicazione
  • problemi organizzativi e di gestione.
La famiglia può sentirsi, sia emotivamente che culturalmente, impreparata ad affrontare la morte e la paura di una vita che finisce e dal punto di vista tecnico non sempre è in grado di far fronte alle necessità del paziente.

Inoltre vi possono essere difficoltà sociali, come la mancanza di spazi adeguati e la scarsità di risorse socio-economiche, che aggravano la situazione. La crisi della morte diventa un problema per il morente e per i suoi cari proprio perché la crisi modifica la base del loro rapporto.

In senso più generale le famiglie soffrono, come la persona morente, per problemi di comunicazione associati alla paura per la morte. Questo momento può essere vissuto dai familiari in modi non coincidenti con gli atteggiamenti del malato. Può instaurarsi un atteggiamento di rassegnazione e di accettazione di quanto sta per avvenire oppure un irrazionale rifiuto dell’evidenza dei fatti.

L’obiettivo principale da un punto di vista medico è il controllo dei sintomi (Ventafridda, 1990).

Anche per i sintomi la diagnosi deve precedere la terapia e bisogna tenere presente che un sintomo può essere causato da più fattori: tra questi vanno identificati quelli che sono reversibili e possono essere corretti. La terapia deve essere la più semplice possibile e i farmaci devono essere somministrati regolarmente per prevenire la comparsa del sintomo stesso. è importante notare come l’intervento sui sintomi fisici possa essere settoriale rispetto alla sofferenza nella sua globalità (dolore totale).

L’obiettivo primario è garantire un congruo numero di ore di sonno, scomparsa del dolore statico ed incidente.

Per il medico il controllo del dolore nel paziente con cancro è un obiettivo importante sia per la prevalenza di questo sintomo sia perché spesso costituisce un problema diagnostico e terapeutico.

La valutazione e il trattamento dei pazienti con neoplasia e dolore richiede un approccio multidisciplinare che include la conoscenza dei meccanismi neurofisiologici e dell’eziopatogenesi del dolore, l’identificazione di sindromi dolorose, la conoscenza della storia naturale e delle possibilità di trattamento del tumore, il riconoscimento non solo delle componenti biologiche, ma anche di quelle psicologiche di ogni sintomatologia.

Il controllo efficace del dolore, in particolare nei pazienti in fase terminale, è uno dei punti cardinali del programma oncologico dell’OMS, accanto alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce e alla terapia (WHO, 1986).

Il dolore compare fino al 50% dei pazienti in trattamento antineoplastico e sale al 70% nei pazienti con cancro avanzato (Bonica, 1985), tuttavia può comparire anche in fase precoce, è riportato infatti che il 15% dei pazienti con cancro non metastatico ha dolore (Twycross, 1982).

Nei pazienti oncologici la stimolazione algica è più frequentemente dovuta alla crescita della massa neoplastica.

Dallo studio di Foley (1979) risulta che nel 77% dei casi il dolore è provocato dal tumore, nel 19% dai trattamenti e nel 3% da cause non collegate né alla malattia né alle terapie. è particolarmente importante l’analisi degli aspetti psicologici implicati nell’esperienza dolorosa, soprattutto se intensa, cronica o maligna, perché la comprensione di questo sintomo richiede un approccio che si sviluppi su molteplici dimensioni. Infatti il dolore rappresenta un evento in cui stretta è la connessione tra aspetti biologici e aspetti mentali, i quali interagiscono nel determinare le risposte emotive, adattative e comportamentali del soggetto che prova dolore. Un’adeguata analisi della situazione di dolore non può quindi limitarsi ad una lettura biologica di quanto accade, ma deve confrontarsi con il dato psicologico. La rilevanza di fattori psicologici si riscontra sia in termini causali (dove la funzione psicosensoriale, di percezione, di valutazione, incide nel determinare, almeno in parte, le caratteristiche del dolore esperito) sia in termini concomitanti poiché ad esso, più facilmente che ad altri sintomi, si possono associare vissuti di particolare disagio emotivo, reazioni psicologiche ed atteggiamenti di sofferenza.

Parlare di multidimensionalità significa anche riconoscere che nell’esperienza del soggetto che prova dolore, numerosi sono gli elementi che possono incidere, sia in senso specifico sulla sensazione dolorosa, che in senso generale sul vissuto di sofferenza dell’individuo e che a fatica l’esperienza del dolore può essere ricondotta esclusivamente ad un problema psicofisiologico.

Un lavoro sperimentale recente ha evidenziato che le dimensioni rilevanti del dolore percepito da pazienti con cancro sono: intensità, qualità emotiva e dimensione somatosensoriale e ricalcano da vicino quelle proposte a priori da Melzack e Casey: sensoriale-discriminativa, emozionale-affettiva e cognitivo-valutativa. In questo stesso studio si evidenziava come la componente intensità fosse la più importante per i pazienti con cancro, seguita da vicino dalla componente emotiva, e che i termini usati per definire un livello di intensità elevato assumevano anche un’elevata valenza nella dimensione emotiva (Clark, 1989).

è osservazione comune che lesioni simili vengono associate molto spesso a sintomi di intensità da nulla a estremamente severa da pazienti diversi e che quindi le caratteristiche dello stimolo periferico possono essere secondarie a determinare la qualità e l’intensità della percezione. Fattori psicologici e sociali si sono dimostrati importanti nel determinare e modificare le caratteristiche di molte forme di dolore cronico benigno e nella valutazione di stimoli dolorosi indotti sperimentalmente (Mount, 1989).

Conclusioni
La fase terminale, da qualsiasi evento possa essere determinata, se deve essere contrastata per renderla meno sofferta, deve ricercare per la persona una qualità di vita dignitosa, motivata, qualunque sia la speranza di quel momento. Qualità della vita che ripropone come sempre la necessità che anche l’uomo in questi momenti abbia ancora il desiderio di vivere per il tempo che gli resta nel modo meno sofferto possibile, il desiderio di mantenere la propria dignità.

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