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Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

Wednesday, November 14, 2007

La Terapia del Dolore DEL DOLORE

Le Cure Palliative
Da un lavoro di :
Franco De Conno

Divisione di Riabilitazione e Terapie Palliative

Istituto Nazionale Tumori, Milano

Le cure palliative possono essere definite come "il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive ed irreversibili, attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più della patologia che ne è la causa". Lo scopo principale delle cure palliative è quello di migliorare anzitutto la qualità di vita piuttosto che la sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale (Ventafridda, 1990).

L’indiscutibile progresso ottenuto dalla medicina sia in campo diagnostico che terapeutico ha condotto ad una serie di conquiste un tempo considerate irrealizzabili, ma questo estremo tecnicismo mal si adatta alla cura del paziente terminale.

La peculiarità della medicina palliativa è il nuovo approccio culturale al problema della morte, considerata non più come l’antagonista da combattere ma accettata a priori come evento inevitabile. Da questa premessa teorica nasce una pratica clinica che pone al centro dell’attenzione non più la malattia, ma il malato nella sua globalità (Corli, 1988).

La consapevolezza della morte induce un’attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla sofferenza di chi sta per morire. Come riporta Spinsanti "la medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non dunque una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte" (Spinsanti, 1988).

Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione al dettaglio, a tutto quello che si può e si deve fare quando "non c’è più niente da fare": l’attenzione alla vita del paziente, anche se brevissima, privilegiandone gli aspetti qualitativi e arricchendo ogni suo istante di significati e di senso; la capacità di ascoltare, dare presenza, restaurare i rapporti umani ed entrare in rapporto emotivo con pazienti e familiari. Infine, una corretta "filosofia" nell’approccio palliativo deve comprendere la capacità di saper riconoscere i propri limiti come curanti e terapisti, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte per la salute psicofisica dell’essere umano. Cure palliative non vogliono dire eutanasia, ma sono l’espressione di un approccio medico basato su conoscenze scientifiche e sull’attenzione continua nella loro applicazione.

Queste nozioni richiedono un nuovo tipo di educazione accademica a livello universitario e postuniversitario (Hillier, 1998; Kearney, 1992). La preparazione di questi medici è più che mai necessaria. Non si intende medicalizzare la morte, ma offrire un aspetto umano a situazioni disumane finora trascurate e viste con indifferenza. Parlare invece di curare, di qualità di vita, di impatto della malattia e/o dei trattamenti, di controllo dei sintomi, significa richiamarsi ad un modo diverso di intendere la realtà. La malattia non è soltanto il fenomeno morboso in quanto tale, ma anche e particolarmente l’esperienza che di questo fenomeno ha il soggetto ed in particolare i vissuti di sofferenza, dolore, stanchezza, le paure, gli aspetti psicologici e relazionali. Da queste considerazioni è nata l’esigenza di proporre un’assistenza peculiare per i malati di cancro in fase avanzata che presentino dolori o altri sintomi. Le cure palliative sono rivolte soprattutto ai pazienti colpiti da cancro. Dai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si comprendono rapidamente le dimensioni del problema: vengono diagnosticati ogni anno 5.9 milioni di nuovi casi di cancro di cui 4.3 milioni giungono a morte. Il rischio di ammalarsi di tumore è in costante aumento nella maggior parte dei paesi sia per l’aumento della durata media della vita sia per l’aumento dei fattori di rischio.

In campo oncologico le terapie specifiche del cancro, chirurgia e chemio-radio-immunoterapia, praticate singolarmente o in associazione tra loro, hanno lo scopo di guarire il paziente eliminando o riducendo la massa tumorale e restituendogli l’integrità fisica. Quando la massa tumorale diviene insensibile a tali trattamenti ed evolve inesorabilmente creando sofferenze fisiche e psicologiche, non vi è più la possibilità di guarire il malato. Il medico vive una sensazione di sconfitta che può portare da un lato all’accanimento terapeutico e dall’altro all’abbandono del malato perché "non c’è più niente da fare". E’ il momento in cui il paziente si avvia verso l’exitus e la famiglia si trova sola con il proprio dolore, la paura, la depressione. Questa è la fase delle cure palliative.

Le cure palliative si rivolgono anche a tutta una serie di patologie che, pur non essendo neoplastiche, sono considerate inguaribili. Molte malattie croniche che colpiscono gli anziani sono in realtà inguaribili: possono creare individui a rischio di perdita di autonomia, ma in questo caso non si può parlare di malati in fase terminale. Solo quando le condizioni fisiche si deteriorano rapidamente, ogni intervento diviene inefficace e la morte è prevista come la soluzione inevitabile in tempi relativamente brevi, si può parlare di fase terminale della vita.

Non è facile identificare i pazienti in fase terminale in quanto non esiste sempre una semplice e netta separazione tra il periodo in cui l’individuo continua a vivere, sia pur sotto il peso della malattia e delle limitazioni ad essa conseguenti, e la fase in cui il processo si fa rapidamente evolutivo e la fine si avvicina. A volte il passaggio ad uno stato di deterioramento fisico e psichico e di dipendenza personale avviene gradualmente come nel caso di insufficienze d’organo croniche, malattie neurologiche e psichiatriche.

Per arrivare ad un intervento sanitario-assistenziale efficace, continuativo e riproducibile, le cure palliative in Italia dovevano cercare una strada nell’ambito della medicina ufficiale e scientifica prendendo in considerazione esperienze già consolidate. Il costante punto di riferimento di tutte le iniziative nei confronti dei malati inguaribili è stato il movimento "Hospice" anglosassone.

La prima iniziativa, strutturata per offrire una risposta pratica e scientifica ai problemi del malato morente, per istituire cioè un sistema di cure palliative, è un fatto piuttosto recente e si collega al movimento Hospice nato negli anni Sessanta grazie a Cicely Saunders fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra.

L’Hospice fornisce supporto ed assistenza a chi si trova nella fase terminale di una malattia inguaribile, per consentirgli di vivere la vita residua in pienezza e nel modo più confortevole possibile. Da un punto di vista organizzativo l’Hospice è una struttura intraospedaliera o isolata nel territorio che ha in parte le caratteristiche della casa, in parte quelle dell’ospedale. è un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo, medico, assistenziale, psicologico, spirituale al fine di migliorarne la qualità di vita. Favorisce una personalizzazione delle cure ed una presenza continua di familiari e conoscenti vicini al malato.

In Italia la carenza di strutture sanitarie specializzate tipo Hospice e reparti di cure palliative fa sì che la casa del malato diventi il luogo di cura più idoneo.

è chiaro come la scelta tra casa e ospedale si pone come una alternativa tra naturalità della sofferenza e rimozione in un ambiente "estraneo". Nel momento in cui le necessità diagnostiche e terapeutiche possono comunque trovare una adeguata risposta, assistere un malato di cancro in fase avanzata in ospedale rappresenta una scelta che rende "diverso" questo periodo di sofferenza, come se questa stessa sofferenza non fosse una consueta componente dell’esperienza umana.

Certamente esistono dei casi in cui l’ospedalizzazione rappresenta la scelta migliore, sia perché adeguata ad affrontare le necessità terapeutiche del malato che per permettere al paziente o ai suoi familiari di appoggiarsi ai sanitari in un momento troppo difficile.

Per i familiari, la scelta del domicilio può anche rappresentare la volontà di vivere in prima persona un momento, una situazione particolarmente profonda e carica di significati anche affettivi, senza delegarla all’istituzione sanitaria. La tradizionale prassi del ricovero ospedaliero non fornisce, in genere, particolari supporti salvo allentare il peso assistenziale che grava sui familiari. L’assistenza domiciliare non rappresenta la soluzione più idonea se non ci si fa carico anche degli aspetti più squisitamente psicologici e relazionali del rapporto assistenziale. La soluzione domiciliare non rappresenta una panacea, ma anzi, se realizzata in modo improprio, produce essa stessa ulteriore sofferenza, in quanto elimina la presenza rassicurante e le risorse dell’ospedale senza fornire un supporto ugualmente autorevole e valido. Gli studi di Parkes (1980, 1985) hanno messo in evidenza come l’assistenza domiciliare possa risultare un elemento di disagio, quando non condotta da personale competente nel controllo del dolore e degli altri sintomi.

Nel proporre una strada alternativa all’ospedalizzazione i risultati devono essere almeno equivalenti, se non migliori, anche per quanto riguarda il controllo del dolore e degli altri sintomi. A questo proposito non esistono molti dati disponibili. Parkes segnala come il controllo del dolore a casa fosse ancora insoddisfacente per un campione di pazienti seguiti nel periodo 1977-79, sebbene i risultati fossero migliorati rispetto ad un lavoro precedente (Parkes, 1980). La preferenza per una somministrazione orale, la ricerca di terapie personalizzate e ad orario fisso vanno nella direzione di permettere una terapia anche domiciliare con la maggior parte dei pazienti.

Uno studio di Ventafridda et al. (1989) ha cercato di confrontare le due forme di assistenza su parametri sia clinici, che psicosociali, che economici. I risultati ottenuti su due campioni di 30 pazienti ciascuno (un gruppo seguito a casa, l’altro seguito in ospedale) non hanno mostrato alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda il controllo del dolore, il numero dei sintomi, il numero di ore di sonno. Migliori condizioni sono state riportate dal gruppo domiciliare nel grado di attività dopo due settimane di assistenza nel giudizio globale di qualità di vita, ottenuto con Spitzer (1981).

Assistere a casa presuppone innanzi tutto il rispetto delle preferenze del malato nella decisione tra casa e ospedale, spesso assai più complesse e personali rispetto a valutazioni esterne (Hinton, 1979). In una indagine effettuata in Italia, 139 pazienti in fase terminale su 165 hanno dichiarato di preferire l’assistenza a casa. Poiché i bisogni del malato sono di natura diversa, è corretto affrontarli utilizzando specifiche competenze e specifici strumenti: poiché tali bisogni non sono di esclusiva competenza medica, l’équipe deve comprendere varie figure professionali. Nel servizio si possono distinguere due gruppi, che lavorano a contatto, ma che si propongono in due momenti diversi d’intervento. Il primo è composto da quattro figure basilari nell’assistenza domiciliare:

  • familiare leader
  • medico domiciliare
  • infermiere domiciliare
  • volontario.
Questo gruppo costituisce l’unità mobile di intervento, l’estensione extramurale del servizio di cure palliative.

Il secondo gruppo è rappresentato da figure professionali di raccordo tra il servizio e la casa. La loro collocazione è in un certo senso di supporto nei confronti dell’équipe domiciliare propriamente detta ed il loro lavoro sul malato è di solito indiretto. Essi sono:

  • psicologo
  • assistente sociale.
Il malato diviene quindi il centro dell’attenzione di diversi specialisti che devono lavorare insieme in modo coordinato. Ciò richiede informazioni le più precise e tempestive possibili e un collegamento continuo. Inoltre l’équipe si riunisce settimanalmente al completo per prendere di comune accordo le decisioni che riguardono sia l’aggiustamento delle terapie che l’atteggiamento comune da adottare da parte degli operatori sanitari e volontari nei confronti del malato e della famiglia. Occuparsi di un malato terminale significa infatti confrontarsi continuamente con i bisogni del malato e della sua famiglia. Più spesso nel paziente oncologico l’idea della morte si palesa solo quando la progressione della malattia obbliga il paziente a dipendere fisicamente e socialmente da altre persone.

La perdita del ruolo sociale e familiare e la nascita di nuovi rapporti dipendenti dallo stato di malattia vengono a pesare fortemente sull’emotività del paziente. L’adattamento alle limitazioni fisiche imposte dal progredire della malattia e la conservazione della propria dignità spesso sono resi difficili dalla mancanza di adeguate condizioni socio-ambientali.

I problemi più rilevanti sono quelli psicologici, anche se la connessione con i problemi fisici è in molti casi diretta. Perdita dell’identità che, a seconda della diverse condizioni fisiche e socio-economiche, si concretizza in differenti significati:

  • perdita del ruolo professionale ed economico
  • perdita del ruolo nell’ambito familiare
  • declino delle capacità intellettuali.
Oltre alla sofferenza e alle conseguenze emotive prodotte dalla malattia e dagli effetti collaterali delle terapie, ritroviamo nell’ammalato:
  • la paura che il dolore possa divenire incontrollabile
  • la paura di morire
  • la paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico
  • la preoccupazione di perdere il proprio ruolo in famiglia e sentirsi di peso.
Un’altra situazione che il paziente terminale si trova ad affrontare in seguito alla dipendenza fisica e sociale è la riattivazione di ogni genere di problema non risolto prima e il riaffiorare di questioni personali mai portate a termine, che spesso interessano il rapporto con gli altri. Nel prendersi cura del malato non si deve dimenticare la sua famiglia che ha bisogno di essere educata, sostenuta e confortata per poter aiutare l’ammalato in tutto l’iter della malattia fino al decesso.

Per i familiari la malattia inguaribile e mortale costituisce una dura prova esistenziale: al dramma della sofferenza e della perdita di una persona si aggiungono molteplici problemi che si radicalizzano sovrapponendosi ed intrecciandosi gli uni con gli altri e per lo più trovano i familiari impreparati ad affrontarli. Le questioni sono di tre ordini:

  • problemi affettivi e personali
  • problemi della comunicazione
  • problemi organizzativi e di gestione.
La famiglia può sentirsi, sia emotivamente che culturalmente, impreparata ad affrontare la morte e la paura di una vita che finisce e dal punto di vista tecnico non sempre è in grado di far fronte alle necessità del paziente.

Inoltre vi possono essere difficoltà sociali, come la mancanza di spazi adeguati e la scarsità di risorse socio-economiche, che aggravano la situazione. La crisi della morte diventa un problema per il morente e per i suoi cari proprio perché la crisi modifica la base del loro rapporto.

In senso più generale le famiglie soffrono, come la persona morente, per problemi di comunicazione associati alla paura per la morte. Questo momento può essere vissuto dai familiari in modi non coincidenti con gli atteggiamenti del malato. Può instaurarsi un atteggiamento di rassegnazione e di accettazione di quanto sta per avvenire oppure un irrazionale rifiuto dell’evidenza dei fatti.

L’obiettivo principale da un punto di vista medico è il controllo dei sintomi (Ventafridda, 1990).

Anche per i sintomi la diagnosi deve precedere la terapia e bisogna tenere presente che un sintomo può essere causato da più fattori: tra questi vanno identificati quelli che sono reversibili e possono essere corretti. La terapia deve essere la più semplice possibile e i farmaci devono essere somministrati regolarmente per prevenire la comparsa del sintomo stesso. è importante notare come l’intervento sui sintomi fisici possa essere settoriale rispetto alla sofferenza nella sua globalità (dolore totale).

L’obiettivo primario è garantire un congruo numero di ore di sonno, scomparsa del dolore statico ed incidente.

Per il medico il controllo del dolore nel paziente con cancro è un obiettivo importante sia per la prevalenza di questo sintomo sia perché spesso costituisce un problema diagnostico e terapeutico.

La valutazione e il trattamento dei pazienti con neoplasia e dolore richiede un approccio multidisciplinare che include la conoscenza dei meccanismi neurofisiologici e dell’eziopatogenesi del dolore, l’identificazione di sindromi dolorose, la conoscenza della storia naturale e delle possibilità di trattamento del tumore, il riconoscimento non solo delle componenti biologiche, ma anche di quelle psicologiche di ogni sintomatologia.

Il controllo efficace del dolore, in particolare nei pazienti in fase terminale, è uno dei punti cardinali del programma oncologico dell’OMS, accanto alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce e alla terapia (WHO, 1986).

Il dolore compare fino al 50% dei pazienti in trattamento antineoplastico e sale al 70% nei pazienti con cancro avanzato (Bonica, 1985), tuttavia può comparire anche in fase precoce, è riportato infatti che il 15% dei pazienti con cancro non metastatico ha dolore (Twycross, 1982).

Nei pazienti oncologici la stimolazione algica è più frequentemente dovuta alla crescita della massa neoplastica.

Dallo studio di Foley (1979) risulta che nel 77% dei casi il dolore è provocato dal tumore, nel 19% dai trattamenti e nel 3% da cause non collegate né alla malattia né alle terapie. è particolarmente importante l’analisi degli aspetti psicologici implicati nell’esperienza dolorosa, soprattutto se intensa, cronica o maligna, perché la comprensione di questo sintomo richiede un approccio che si sviluppi su molteplici dimensioni. Infatti il dolore rappresenta un evento in cui stretta è la connessione tra aspetti biologici e aspetti mentali, i quali interagiscono nel determinare le risposte emotive, adattative e comportamentali del soggetto che prova dolore. Un’adeguata analisi della situazione di dolore non può quindi limitarsi ad una lettura biologica di quanto accade, ma deve confrontarsi con il dato psicologico. La rilevanza di fattori psicologici si riscontra sia in termini causali (dove la funzione psicosensoriale, di percezione, di valutazione, incide nel determinare, almeno in parte, le caratteristiche del dolore esperito) sia in termini concomitanti poiché ad esso, più facilmente che ad altri sintomi, si possono associare vissuti di particolare disagio emotivo, reazioni psicologiche ed atteggiamenti di sofferenza.

Parlare di multidimensionalità significa anche riconoscere che nell’esperienza del soggetto che prova dolore, numerosi sono gli elementi che possono incidere, sia in senso specifico sulla sensazione dolorosa, che in senso generale sul vissuto di sofferenza dell’individuo e che a fatica l’esperienza del dolore può essere ricondotta esclusivamente ad un problema psicofisiologico.

Un lavoro sperimentale recente ha evidenziato che le dimensioni rilevanti del dolore percepito da pazienti con cancro sono: intensità, qualità emotiva e dimensione somatosensoriale e ricalcano da vicino quelle proposte a priori da Melzack e Casey: sensoriale-discriminativa, emozionale-affettiva e cognitivo-valutativa. In questo stesso studio si evidenziava come la componente intensità fosse la più importante per i pazienti con cancro, seguita da vicino dalla componente emotiva, e che i termini usati per definire un livello di intensità elevato assumevano anche un’elevata valenza nella dimensione emotiva (Clark, 1989).

è osservazione comune che lesioni simili vengono associate molto spesso a sintomi di intensità da nulla a estremamente severa da pazienti diversi e che quindi le caratteristiche dello stimolo periferico possono essere secondarie a determinare la qualità e l’intensità della percezione. Fattori psicologici e sociali si sono dimostrati importanti nel determinare e modificare le caratteristiche di molte forme di dolore cronico benigno e nella valutazione di stimoli dolorosi indotti sperimentalmente (Mount, 1989).

Conclusioni
La fase terminale, da qualsiasi evento possa essere determinata, se deve essere contrastata per renderla meno sofferta, deve ricercare per la persona una qualità di vita dignitosa, motivata, qualunque sia la speranza di quel momento. Qualità della vita che ripropone come sempre la necessità che anche l’uomo in questi momenti abbia ancora il desiderio di vivere per il tempo che gli resta nel modo meno sofferto possibile, il desiderio di mantenere la propria dignità.

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Wednesday, October 17, 2007

Ipnosi, un’alleata contro il dolore

I dati di uno studio pubblicato dal Journal of the National Cancer
Tratto dal: Il Corriere un articolo di:Vera Martinella

Permette di alleviare l’ansia e ridurre gli analgesici, in alcune terapie oncologiche. Diversi ospedali italiani la utilizzano.

MILANO – Non solo farmaci per contrastare la sofferenza durante e dopo un’operazione chirurgica. Secondo uno studio americano recentemente pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute, una breve seduta di ipnosi prima di un intervento allevia l’ansia e il dolore, permettendo di somministrare una minor quantità di analgesici e traducendosi in un’esperienza meno traumatica per le pazienti e meno costosa per l’ospedale. Precedenti ricerche avevano già suggerito che l’ipnosi potesse contribuire ad alleviare problemi di varia natura, aiutando le pazienti a rimettersi più in fretta e, quindi, accorciandone la degenza ospedaliera.

Quest’ultimo studio, condotto dai ricercatori della Mount Sinai School of Medicine di New York, ha verificato l’efficacia della tecnica su cento donne che dovevano sottoporsi ad una biopsia chirurgica o all’asportazione di un nodulo al seno e che, prima della procedura, sono state coinvolte in una seduta d’ipnosi: 15 minuti durante i quali le pazienti sono state indotte ad uno stato di relax e sensazioni piacevoli e hanno ricevuto suggerimenti su come ridurre la percezione di dolore, nausea e affaticamento. Altre cento pazienti, invece, si sono limitate ad un breve dialogo con uno psicologo. I risultati, secondo i ricercatori, sono stati chiaramente migliori nel gruppo-ipnosi, per il quale è bastata un’anestesia più leggera e una quantità di sedativi ridotta. Inoltre, le partecipanti hanno riferito meno disturbi emotivi e minori effetti collaterali dopo l’intervento. Secondo gli autori, l’ipnosi ha permesso di risparmiare circa 773 dollari (oltre 540 euro) a paziente.Ma quale “magia” si nasconde dietro a questi meccanismi? Niente sguardi magnetici o potenzialità irrealistiche, tengono a precisare gli esperti.

«Tramite l’ipnosi si può accompagnare virtualmente il malato in una condizione di benessere, stimolandolo ad evocare situazioni piacevoli, in modo tale che, dopo l’intervento o anche al risveglio, quando è necessaria un’anestesia generale, la sua percezione del dolore sia minore» risponde Luisa Merati, responsabile del Centro Medicina Psicosomatica presso l’ospedale San Carlo di Milano, che organizza sedute ipnotiche, individuali o di gruppo, con pazienti oncologici (le prestazioni sono rimborsate dal servizio sanitario nazionale e, in ogni caso, i malati di cancro sono esenti dal ticket). «Allo stesso modo – prosegue - è possibile aiutare il paziente a combattere gli eventuali sintomi fastidiosi sia dell’operazione che della chemioterapia.

O, ancora, tramite tecniche di rilassamento si può offrire un sostegno psicologico “potenziato”, per superare i momenti difficili della malattia, inducendo calma e ottimismo per contrastare ansia e paura». Una soluzione altrettanto efficace può essere quella di insegnare ai malati a praticare l’auto-ipnosi (una tecnica simile al training autogeno e alle tecniche di meditazione), grazie alla quale i pazienti dovrebbero riuscire a scivolare in uno stato di benessere quando ne hanno bisogno, in day hospital per le sedute di chemioterapia o quando serve un aiuto a casa contro stanchezza cronica, nausea, debolezza.Le potenzialità dell’ipnosi sono già applicate in altri ambiti (per smettere di fumare, perdere peso o contro alcuni disturbi della psiche) e, gradualmente, vengono riconosciute anche in Italia come valide terapie complementari, utili se affiancate ad interventi di altro tipo. A utilizzare questa tecnica sui pazienti oncologici, infatti, sono già diverse strutture, fra cui l’Istituto Nazionale Tumori e l’ospedale San Raffaele di Milano, l’azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari, l’ospedale Umberto I di Lugo di Romagna (Ravenna), l’azienda ospedaliera Molinette di Torino e gli ospedali di Legnago (Verona), Garbagnate (Varese) e Varese.

«Al pari di agopuntura e massaggi, le tecniche ipnotiche sono mezzi utili ed efficaci contro il dolore e gli effetti indesiderati delle terapie - commenta Furio Zucco, presidente della Società Italiana di Cure Palliative. - Ma credo che in Italia ci si debba prima occupare dell’abc delle cure analgesiche, per le quali c’è ancora molto da fare: serve, prima di tutto, la prescrizione dei farmaci oppiodi con il ricettario del Servizio Sanitario Nazionale, mentre oggi si usa ancora un ricettario speciale che molti medici di famiglia neppure vanno a ritirare. E bisogna incoraggiare l’immissione sul mercato dei derivati della cannabis, recentemente approvati con un decreto ministeriale».

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Thursday, October 11, 2007

Terapia del dolore

Sardegna, Emilia e Toscana le più attive
Sanihelp.it
- Prima Sassari, seguita a ruota da Padova, Biella e Vicenza. È questa la classifica italiana delle Province che tra dicembre 2006 e luglio 2007 hanno fatto registrare il più significativo incremento nel consumo di oppioidi per via orale, pari al 35%. La maglia nera va alle province di Avellino, Matera, Teramo e Crotone, dove gli oppioidi orali, raccomandati come prima scelta dalle Linee Guida OMS ed EAPC, costituiscono meno del 10% della spesa relativa agli oppioidi forti commercializzati.

Questi dati, emersi da una recente ricerca condotta dal Centro Studi Mundipharma, sono stati presentati a Roma nel corso del convegno Un mondo con meno dolore: esperienze a confronto, conclusosi oggi con una serie di workshop specifici.
Il congresso ha fornito un interessante spaccato sul tema della terapia del dolore: le Linee Guida Internazionali, che promuovono l’utilizzo degli oppioidi orali, sono ancora disattese, e i preparati transdermici dominano il mercato degli oppioidi forti.
Rispetto all’anno scorso, tuttavia, si registra un timido miglioramento: a livello italiano, il consumo di oppioidi orali è cresciuto di ben 3,62 punti percentuali.
Le Province emiliane fanno la parte del leone in tale crescita: Piacenza, Bologna e Reggio Emilia hanno riportato infatti un incremento di oltre 6 punti percentuali, anche grazie alla precisa opera di documentazione svolta dalla Commissione Regionale Farmaco della Regione Emilia Romagna. Anche le province toscane registrano un sensibile aumento nella spesa per gli analgesici orali: la Toscana è stata infatti una tra le prime regioni italiane ad impegnarsi nell’applicazione delle Linee Guida Internazionali, promuovendo l’utilizzo degli oppioidi secondo la scala OMS e raccomandando la preferenza per la via di somministrazione orale.

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Monday, August 13, 2007

Analgesia e controllo del dolore

L'effetto dell'ipnosi nel controllo del dolore è noto da tempo, in era preanestesiologica, ha permesso di eseguire interventi chirurgici e di salvare vite umane. Attualmente il suo ruolo non è ridimensionato anche se le indicazioni sono cambiate.
Gli studi degli ultimi cinquant'anni, dimostrano che l'ipnosi è in grado di ridurre o eliminare un vasto numero di dolori, sia sperimentalmente (dolore ischemico, da pressione, da freddo, da caldo, da stimolazione elettrica), che clinicamente (generalmente in modo ancora più indicativo). L'ipnosi si è dimostrata inequivocabilmente superiore ad altre tecniche psicologiche, come la distrazione e il biofeedback.
Parlando di fenomenologia ipnotica si è accennato che la sensibilità può essere modulata sia in eccesso (iperalgesia), sia qualitativamente (parestesie), sia in difetto (analgesia, anestesia). L'anestesia ipnotica è stata documentata nella sua forma più eclatante in interventi chirurgici quali la tonsillectomia, l'appendicectomia, nella plastica per ernia inguinale, nella piccola chirurgia ambulatoriale, nel dolore procedurale (esami strumentali dolorosi), in numerosi interventi odontoiatrici, nel taglio cesareo, ma anche in interventi di cardiochirurgia. Si è dimostrata in grado durante l'intervento chirurgico di ridurre l'emorragia, per l'intensa vasocostrizione e successivamente di abbreviare il decorso postoperatorio, di favorire la cicatrizzazione delle ferite, di ridurre il dolore ed altri sintomi associati (ad es. nausea, vomito, prurito).
La marcia a piedi nudi sui carboni ardenti, con temperature generalmente superiori ai 600°C, è un altro esempio d'anestesia ipnotica, indipendentemente dalle modalità con cui è stata indotta.

De Benedittis ed al. hanno dimostrato in un esperimento con dolore ischemico che soggetti altamente ipnotizzabili presentavano un aumento della tolleranza al dolore del 113% verso un incremento di tolleranza di solo il 26% in soggetti scarsamente ipnotizzabili.
L'ipnosi si è dimostrata capace di alleviare sia la componente sensoriale discriminativa dell'esperienza dolorosa, sia la componente affettiva, cioè la sofferenza ed in particolare nei soggetti altamente ipnotizzabili è stato osservato un maggior effetto sulla componente motivazionale affettiva dell'esperienza stessa.
Una scissione tra la componente sensoriale - discriminativa e quella motivazionale affettiva risulterebbe responsabile della normale attivazione d'indicatori involontari del dolore quali un aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della frequenza respiratoria, della sudorazione, ecc. E' stato dimostrato che l'analgesia ipnotica non dipende da sistemi neuroumorali, come quelli endorfinergici, non è influenzata dalla somministrazione di naloxone, inoltre la sua instaurazione può essere praticamente immediata, così come il suo effetto può essere immediatamente abolito con la sola verbalizzazione dell'operatore. Il sistema endorfinergico necessiterebbe di tempi dell'ordine dei minuti per instaurare la sua azione. Secondo Wall ed al. la condizione ipnotica sarebbe in grado di modulare alcuni sistemi sensoriali afferenti come la via paleospinotalamica, sopprimendo anche alcuni riflessi segmentari locali.
Olness, Waing e Ng (1980) hanno pubblicato una ricerca pilota sul livello ematico delle endorfine in quattro bambini con malattie croniche, ben addestrati all'uso dell'autoipnosi in sede clinica per il controllo del dolore. Il training era cominciato quando i soggetti avevano dai 6 agli 8 anni e al monumento della ricerca era trascorso da un minimo di 2 ad un massimo di 7 anni, durante i quali tutti i quattro bambini si erano sistematicamente esercitati nella tecnica di controllo del dolore nel corso di regolari sedute di gruppo.
L'esperimento consisteva nel sottoporre i soggetti a puntura in vena prima allo stato di veglia e poi dopo induzione di autoipnosi con suggerimento di analgesia del braccio, eseguendo la puntura solo una volta ottenuto, a detta dei soggetti, l'effetto analgesico. I risultati dell'esame radioimmunologico non hanno rilevato alcuna presenza misurabile di endorfina nel sangue, né in ipnosi né allo stato di veglia. Goldstein e Hilgard (1975) hanno affrontato il problema da un'angolatura un po' diversa, usando Naloxone, un farmaco di cui é nota l'azione inibitoria degli effetti analgesici della morfina e delle endorfine. L'ipotesi di lavoro era che se l'analgesia ipnotica fosse mediata dalle endorfine, il Naloxone dovrebbe impedirla. E' risultato comunque che la somministrazione di Naloxone non interferiva con l'analgesia ipnotica nei loro soggetti adulti.
Varni, Katz e Dash (Russo e Varni, 1982) riassumono le strategie di ricerca usate per tentar di chiarire le implicazioni fisiologiche, neurochimiche e comportamentali delle endorfine nell'uomo. fra i metodi impiegati ci sono i seguenti: somministrazione di sostanze antagoniste dei narcotici per dislocare gli oppiati dai loro recettori; somministrazione diretta di endorfine sintetiche con osservazione delle alterazioni comportamentali concomitanti; analisi diretta di varie endorfine nel sangue e in altri liquidi biologici; misurazione diretta delle endorfine prima e dopo interventi che dovrebbero influire sull'esperienza del dolore. Finora nessuna di queste strategie ha dato prove definitive quanto al fatto che la liberazione di endorfine sia influenzata dall'ipnoterapia.
E' merito dei coniugi Hilgard la dimostrazione di una correlazione diretta fra il grado d'ipnotizzabilità ed il livello d'analgesia raggiungibile ed inoltre che l'effetto analgesico dell'ipnosi non è riconducibile all'effetto placebo, alla paura o alla suggestione, ma è un effetto specifico. Il contributo degli Hilgard alla spiegazione dell'ipnoanalgesia é partito da una dimostrazione didattica del fenomeno della sordità ipnotica, che non aveva assolutamente nulla a che fare col problema del dolore. Nel corso della dimostrazione il soggetto sperimentale, cui era stata impartita la consegna di sordità ipnotica, non reagiva a forti rumori e non rispondeva alle domande dei compagni. Un altro studente, notando che ovviamente il soggetto non aveva alcun problema con l'udito, chiese se non potesse esserci una qualche parte di lui che in realtà sentiva tutto quello che veniva detto. Il docente che guidava l'esercitazione chiese allora al soggetto di alzare un dito nel caso che una parte di lui, diversa da quella ipnotizzata, sapesse quello che stava succedendo in quel momento: il soggetto sollevò il dito e subito dopo chiese al docente di spiegargli questo suo movimento involontario.
La "parte ipnotizzata" rimase all'oscuro di tutto, mentre l' "altra parte" quando aveva il sopravvento veniva evocata da un apposito segnale, toccando il braccio del soggetto - era in grado di riferire tutto per filo e per segno. Una volta svegliato, il soggetto ricevette il segnale di sblocco dell'anestesia postipnotica e a quel punto poté ricordare tutto quello che era successo (Hilgard e Hilgard, 1975).
Hilgard ipotizzò che un meccanismo simile potesse agire nel caso del controllo ipnotico del dolore e in una serie di esperimenti dimostrarono che le cose stanno proprio così. Ai soggetti capaci di analgesia ipnotica si chiedeva se una qualche "altra parte" di loro si rendesse conto di quello che stava succedendo. In circa metà dei casi, mentre la parte ipnotizzata riferiva di non avvertire alcun dolore o quasi, l'"altra parte" denunciava un dolore più intenso. Gli Hilgard descrivono questa "altra parte" come un "osservatore nascosto", avvertendo però che questa é "una metafora di qualcosa che avviene a livello intellettuale ma non é accessibile alla coscienza della persona ipnotizzata. Non significa che ci sia una sorta di personalità secondaria che vive di vita propria - una specie di homunculus annidato nelle ombre della personalità cosciente" (Hilgard e Hilgard, 1975, pp168-169).

Eventi aspecifici dell'ipnosi nel controllo del dolore

· Defocalizzazione dell'attenzione: com'è noto l'attenzione focalizzata sull'agente lesivo e sull'area corporea interessata, potenzia la percezione dolorosa, mentre la semplice distrazione ha un certo effetto nel ridurla (innalzamento della soglia del dolore).
· Riduzione dell'ansia associata: anche l'ansia amplifica la sofferenza e una sua riduzione è particolarmente vantaggiosa nel dolore acuto.
· Effetto placebo: viene così definita qualunque metodica o procedimento terapeutico che produce un effetto prescindendo o non riconducibile ai fondamenti teorici sui quali si basa la terapia in oggetto. L'effetto è estremamente variabile in rapporto a molti fattori e sembra funzionare con via endorfinergica. Secondo Evans ponendo l'efficacia antalgica di 10mg di morfina=1, abbiamo per il placebo un coefficiente=0,56, di poco superiore a quello di una dose standard di aspirina. L'effetto placebo in un set sperimentale ha dimostrato un "peso" di circa il 16%, mentre mediamente in ambito clinico è valutabile in circa il 33% e può raggiungere il 70% se esiste un'ottima sintonia medico -paziente.
· Decondizionamento
Nel dolore cronico si può assistere alla scomparsa della patologia sottostante con la persistenza del sintomo che si automantiene anche a seguito di un rinforzo ambientale (farmaci al bisogno, riposo, comprensione del patner, ecc.)
1. Somministrare i farmaci ad orario fisso: viene tolto il rinforzo positivo del farmaco
2. Il paziente è invitato a lavorare: il riposo spesso aggrava la situazione
3. Bisogna evitare che questo tipo di comunicazione regressiva (del dolore) sia vantaggiosa per il paziente.

Eventi specifici dell'ipnosi nel controllo del dolore (Conclusioni)

L'effetto dell'ipnosi nel controllo del dolore è specifico:
- Non dipende dalle endorfine
- Non dipende da modulazioni dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene
- Non è una analgesia da stress o ansia
- Dipende dal grado d'ipnotizzabilità del paziente
- E' compatibile con un sistema di controllo elettrico o neurotrasmettitoriale (questo giustifica la rapidità con cui l'analgesia può essere indotta o rimossa).
La diagnosi è imperativa, anche qualora abbia successo, la rimozione di un sintomo senza una corretta analisi delle cause può portare danni superiori ai benefici, sia dal punto di vista biologico come evoluzione patologica della malattia, sia dal punto di vista psicologico come perdita di un compenso intrapsichico.
"Il successo della terapia nasce dall'incontro realistico delle esigenze delle parti"
Come si sottolineerà più avanti il dolore non è una struttura granitica immodificabile, forse lo è solo il dolore acutissimo, inoltre non è una sensazione che può essere abolita, ma un costrutto che può essere manipolato, costituito da un passato, un presente, un futuro. L'inconscio rappresenta una risorsa importante e insostituibile in molte situazioni, fra cui il controllo del dolore cronico.

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Tuesday, June 05, 2007

Un anticorpo alleato contro il dolore

Ricercatori del CNR, in collaborazione con i colleghi dell'EBRI e con la Lay Line Genomics, hanno sviluppato un nuovo anticorpo, efficace contro il dolore infiammatorio e neuropatico e privo di effetti collaterali. Il lavoro è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science.

Dolore infiammatorio e dolore neuropatico?
Potrebbero essere combattuti in maniera più efficace grazie ai promettenti e incoraggianti risultati della sperimentazione di un anticorpo monoclonale in grado di esercitare un'azione analgesica, denominato MNAC13 e messo a punto da una équipe dell'Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IN), coordinata da Flaminia Pavone, in collaborazione con Antonino Cattaneo dell'EBRI-European Brain Research Institute, presidente della società biotecnologica Lay Line Genomics. La ricerca è stata pubblicata con il titolo 'The function neutralizing anti -TrkA antibody MNAC13 reduces inflammatory and neuropathic pain' su Proceedings of the National Academy of Science (Usa), con presentazione della prof.ssa Rita Levi Montalcini.

"Il trattamento delle diverse sindromi algiche rappresenta a tutt'oggi uno dei principali problemi sanitari, con un'importante ricaduta sul piano sociale", sottolinea Flaminia Pavone dell'In-Cnr. La ricerca ha messo in evidenza come l'anticorpo monoclonale MNAC13, sia in grado di bloccare in modo selettivo l'azione della proteina NGF (Nerve Growth Factor), il fattore di crescita nervoso scoperto dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini, che riveste un ruolo fondamentale nella patofisiologia del dolore, dovuta al legame con il suo recettore TrkA (tirosin chinasi A).
In pratica, sottolinea la ricercatrice, l'azione dell'anticorpo consiste nel sostituirsi al fattore di crescita nervosa impedendo il legame con il suo recettore: un'azione che si traduce in una riduzione significativa della trasmissione e percezione del dolore.

Gli esperimenti condotti dai ricercatori Gabriele Ugolini, Sara Marinelli e Sonia Covaceuszach hanno dimostrato che l'anticorpo è in grado di esercitare un'azione analgesica
riducendo nettamente la risposta al dolore senza indurre effetti collaterali. I test effettuati hanno evidenziato come l'anticorpo sia in grado di indurre un innalzamento della soglia nocicettiva (la soglia di sensibilità al (dolore) in un modello di dolore infiammatorio, simile al dolore postoperatorio, e un durevole effetto analgesico anche sul dolore neuropatico, caratteristico di numerose neuropatie cliniche come la neuropatia posterpetica e diabetica.

Inoltre, MNAC13 agisce sinergicamente con altri farmaci analgesici, gli oppiacei, potenziandone gli effetti: "Il che permetterebbe di aumentarne l'efficacia", precisa la ricercatrice dell'IN -CNR, "riducendone contemporaneamente gli effetti collaterali". E' stato inoltre osservato che l'effetto sul dolore neuropatico, un dolore che comporta una lesione del sistema nervoso, si protrae nel tempo oltre il periodo del trattamento, suggerendo la possibilità che l'anticorpo agisca a livello molecolare, modificando l'espressione genica ed anticipando così il processo di guarigione. I dati sperimentali ottenuti in laboratorio incoraggiano per un'applicazione clinica in un settore a tutt'oggi carente da un punto di vista terapeutico.

Lo sviluppo del potenziale terapeutico di MNAC13 sar à affidato a un'altra biotech italiana (BioXell S.p.A), che ha recentemente concluso con Lay Line Genomics, un accordo di licenza riguardante proprio MNAC13.

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Friday, April 27, 2007

Controllare il dolore cronico

Promosso dalla sezione milanese di Donneuropee-Federcasalinghe, prenderà il via martedì 24 aprile il ciclo "Percorsi di consapevolezza", sei appuntamenti rivolti in particolare alle socie di Federcasalinghe, volti a sperimentare tecniche di auto-aiuto per controllare il dolore cronico.

L'iniziativa è un ulteriore momento del progetto avviato dall'Associazione nel 2005, quando si è tenuto il primo incontro sul tema del dolore cronico, che ha affrontato il significato di dolore, le dimensioni del problema, le terapie e avviato il dibattito sul diritto di vivere senza dolori inutili . Il secondo appuntamento, lo scorso anno, ha affrontato il tema emicrania, presentandone le diverse manifestazioni patologiche, la componente invalidante, le possibili cause e introducendo le diverse tecniche per sconfiggere o controllare il problema.

I due incontri sono stati condotti da Paolo Mariconti, Dirigente Medico di Anestesia e Terapia del Dolore presso la Fondazione Policlinico IRCCS di Milano, e hanno visto la partecipazione di un rappresentante del Tribunale per i Diritti del Malato, il primo anno, e di un rappresentante dell'Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee, il secondo.

Anche i 'percorsi di consapevolezza' saranno coordinati e condotti da Paolo Mariconti che guiderà le partecipanti a cercare di aumentare sia la consapevolezza e la sensibilità del proprio corpo, sia quella della propria psiche, per imparare a controllare gli stati emotivi causa di stress (paura, rabbia, ansia, ecc.). Le tecniche proposte durante gli incontri, inoltre, svolgono un ruolo importante anche per affrontare esigenze quali quella del recupero dopo esercizio fisico intenso e quella di condurre un allenamento mentale in situazioni di semi-immobilità (conseguenti, per esempio, a infortunio o malattia).

"Acquisire maggiore consapevolezza e superare disorientamento e rassegnazione di fronte ad un problema che affligge una gran parte della popolazione", ha affermato Liliana Merlo, Presidente regionale Lombardia di Donneuropee-Federcasalinghe, "è l'obiettivo della nostra iniziativa. I dati sulla dimensione del problema nel nostro paese sono inquietanti: 12 milioni di pazienti soffrono ogni anno di dolore cronico e quindi occorre affrontare questo problema con un approccio diverso da quello che, fino a poco tempo fa, è stato adottato. Inoltre le donne, da sempre, sono le prime ad occuparsi della salute della famiglia, spesso trascurando la propria. Oggi, poi, il ruolo sociale della donna è cambiato e sono molte le donne che devono fare i conti con ritmi frenetici derivanti da molteplici impegni, con la conseguenza di un aumento di ansia, di stress e di disturbi correlati. Per questo è necessario che i pazienti siano informati sia sulle modalità di manifestazione e trattamento del dolore, sia sul loro diritto ad essere curati per ridurre o controllare il dolore inutile".

Il dolore inutile è quel dolore che non svolge più il suo ruolo primario di campanello d'allarme - segnalando, con il suo manifestarsi, una patologia o avvertendo di un pericolo - ma diventa esso stesso malattia: in pratica, la patologia che colpisce la persona provoca un¹infiammazione che, sensibilizzando i recettori del dolore tanto da farli 'impazzire', arriva a generare automaticamente dolore. Ed è proprio la sproporzione tra processo patologico e dolore generato che, coinvolgendo anche l¹emotività della persona, fa diventare il dolore talmente imponente da renderlo una malattia.

"Il problema del dolore cronico benigno ha davvero dimensioni preoccupanti: nei paesi occidentali investe almeno il 35,5 per cento della popolazione (fonte: IASP - Associazione internazionale per lo studio del dolore) e mostra una particolare inclinazione per il sesso femminile. I dati della IASP, infatti, evidenziano che il dolore cronico colpisce il 39,6 per cento delle donne contro il 31 per cento degli uomini. Le stesse percentuali, applicate alla popolazione definiscono un fenomeno che colpisce più di 11 milioni e 600 mila donne, e "solo" 8 milioni e 500 mila uomini", sottolinea Paolo Mariconti. "Nonostante negli ultimi anni si stia dedicando maggiore attenzione a questo problema sia da parte dei pazienti, sia da parte dei medici, occorre continuare a sensibilizzare medici, pazienti, istituzioni e opinione pubblica su questo problema: sulla formazione di medici del dolore, sulla creazione di reparti dedicati negli ospedali, sul rimborso delle terapie - anche quelle più innovative - e, non meno importante, sull'incidenza del dolore cronico nella popolazione femminile, un dato significativo che richiede una nuova attenzione da parte della ricerca medica e della medicina in generale".

Gli incontri sono aperti al pubblico e si svolgeranno presso il Centro Fitness American Contourella di via Sanzio. Per informazioni sulla partecipazione: Donneuropee Federcasalinghe, telefono 02 76 00 74 33 (lun-ven ore 15.00-18.00). Il numero dei posti disponibili per questo primo ciclo di incontri è limitato: si prega di chiamare per prenotazioni e informazioni.

Fonte: Ufficio stampa Donneuropee-Federcasalinghe 2007.

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Friday, March 30, 2007

La localizzazione del dolore

Infarto o indigestione? La corretta localizzazione spaziale della causa di un dolore non è spesso semplice per il paziente, ma anche la scienza - pur ben conoscendo alcune classiche corrispondenze fra dolore apparente e danno reale - non ha ancora compreso appieno i meccanismi per i quali avvengono questi fenomeni. Ora uno studio diretto da Robert Coghill della Wake Forest University School of Medicine, permette di chiarire alcuni aspetti di questo complesso processo, mettendo in evidenza come in esso sia coinvolto un numero di aree cerebrali ben superiore di quanto finora supposto.

I risultati della ricerca - pubblicati sul numero di questa settimana del Journal of Neuroscience - sconfessano l'ipotesi tradizionale secondo cui poche aree cerebrali, fra cui la corteccia somatosensoriale, sarebbero responsabili della localizzazione spaziale del dolore, che invece - come risulta dalle immagini di risonanza magnetica funzionale ottenute da volontari sottoposti a specifici esperimenti - richiederebbe processi complessi strutturati in modo simile a quelli che intervengono nella localizzazione uditiva o visiva.

"Mentri i soggetti stavano valutando la localizzazione spaziale dello stimolo, si è accesa un'intera rete di aree cerebrali", ha detto Coghill. "Stavamo osservando qualcosa di nuovo e diverso: aree che storicamente erano ritenute coinvolte nell'elaborazione degli aspetti emotivi del dolore partecipavano alla sua localizzazione. Questo apre un quadro concettuale completamente nuovo sul modo di pensare gli aspetti spaziali del dolore."

"Il dolore - ha osservato Yoshitetsu Oshiro, altro autore dello studio - non è ancora ben compreso e servono trattamenti migliori. Questo cambiamento di direzione potrà essere importante per indirizzare ricerca e terapie nella direzione giusta." (gg)

Fonte: Le scienze

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Monday, March 05, 2007

Il dolore e l'ipnosi

Il dolore e l'ipnosi

Sottoponendo a risonanza magnetica funzionale (fRMN) alcuni pazienti sotto ipnosi un gruppo di ricercatori del Dipartimento di medicina dell'Università Erasmus di Rotterdam e dell' Università di Francoforte, ha identificato - come viene illustrato in un articolo sull'ultimo numero di Psychotherapy and Psychosomatics - alcuni meccanismi neurobiologici della risposta al dolore.

La depersonalizzazione è caratterizzata da persistenti e ricorrenti episodi di distacco dal proprio sé, spesso con una ridotta percezione del dolore. Alterazioni negli schemi corporei simili a quelli presenti nella sindrome da deficit nella connessione limbico-corticale sono ritenute responsabili di questo fenomeno.

Nello studio i ricercatori - diretti da Christian H. Röder e Matthias Michal - hanno utilizzato l'ipnosi per indurre uno stato di depersonalizzazione in soggeti sani ben suscettibili di ipnosi ed esaminare gli schemi neuronali della percezione durante tre differenti stati di coscienza: veglia, rilassamento ipnotico e depersonalizzazione ipnotica. Lo stimolo doloroso era costituito da una scossa elettrica al polso destro.

Lo stimolo nocicettivo ha portato all'attivazione delle ben note vie del dolore, e in particolare della corteccia somatosensoriale, dell'insula e del cervelletto. Durante lo stato di depersonalizzazione ipnotica, l'attivazione è risultata fortemente ridotta nella corteccia somatosensoriale controlaterale, nella corteccia parietale (area di Brodman), in quella parietale, nel putamen e nella parte omolaterale dell'amigdala, e così pure in tutte le aree collegate alla risposta emotiva al dolore, che veniva percepito in misura estremamente ridotta.

Durante lo stato di depersonalizzazione, sono risultate peraltro meno attive tutte le aree corticali e sottocorticali coinvolte nella propriocezione, suggerendo anche la possibilità che nel corso delle cosidette esperienze di extracorporeità siano attivi specifici meccanismi neuronali.

Secondo gli autori, la tecnica adottata permetterà uno studio più approfondito dei meccanismi biologici e psicologici che soggiaciono sia ai fenomeni di autolesionismo sia a quelli che portano a disturbi di carattere psicosomatico. (gg)

tratto da: Le Scienze

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Sunday, February 18, 2007

Sete e Dolore: interazione e plasticità

Si ringrazia l'amico e collega Dr. Roberto Blarasin e il suo bellissimo Blog sull'Ipnosi : Sveglio (visitatelo) per i contenuti e gli articoli dal quale abbiamo ripreso questo vecchio articolo di estremo interesse.

La sensazione di sete facilita l'insorgenza della reazione dolorosa gli stimoli esterni. Lo rivela uno studio pubblicato dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

“Questa è l’ennesima dimostrazione della plasticità dei meccanismi di espressione del dolore”, spiega Michael Farrell dell’Howard Florey Institute di Melbourne. “In questo caso particolare, una lieve perturbazione dei livelli di elettroliti, cioè ciò che fondamentalmente dà inizio alla sensazione di sete, è abbastanza per modificare intensità e modalità di espressione del dolore”.

Farrell ed il suo team hanno studiato la relazione tra sete e dolore in 10 pazienti. Ai partecipanti allo studio è stata applicata una leggera pressione ai pollici per indurre una lieve sensazione di dolore e sono state somministrate iniezioni saline per simulare la sete. Analizzando il flusso sanguigno cerebrale durante l’esperimento tramite PET (tomografia ad emissione di positroni) si è osservato che negli individui più assetati la sensazione dolorosa risultava più intensa. La sensazione di sete, invece, non risultava alterata dalla sensazione dolorosa.

La sete aveva causato l’attivazione della corteccia cingolata anteriore (area 32 di Brodmann) e dell’insula. L’aumentata risposta al dolore era associata sia all’aumento dell’attività nelle regioni corticali che sono correlate all’intesità del dolore che ad una attivazione specifica nel cingolato anteriore pregenuale e nella corteccia orbitofrontale ventrale, due regioni cerebrali che non vengono attivate dai due input (sete e dolore) singolarmente ma da entrambi (ciò suggerisce che in tali aree svolgano una funzione integrativa).

Questi studi suggeriscono che la corteccia limbica e la corteccia prefrontale giocano un ruolo nella modulazione del dolore durante l’esperienza della sete. Farrell ha avanzato l’ipotesi che ci possano essere circuiti cerebrali che permettono ad una sensazione di modulare l’altra, una strategia importante dal punto di vista evolutivo. Fame, sete, stanchezza e dolore ad esempio non si manifestano contemporaneamente, e questo ci permette di stabilire delle priorità: “La sensazione con le più immediate implicazioni per la sopravvivenza viene messa in evidenza”, spiega il ricercatore australiano.

Fonte: Farrell MJ, Egan GF, Zamarripa F et al. Unique, common, and interacting cortical correlates of thirst and pain. PNAS 2006
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Sunday, February 11, 2007

Mestruazioni dolorose (Dismenorrea)

Non sempre il dolore prima o durante la mestruazione dipende solo da fattori ginecologici. Per esempio, la stitichezza oppure dei disturbi legati alla cattiva posizione della colonna vertebrale, che da soli non sono sufficienti a produrre il fenomeno dolore, sommati all'irritazione locale dell'utero nel momento in cui inizia a perdere sangue possono produrre dolore anche molto violento.

In questi casi è quindi necessario provvedere a mantenere in ordine anche tutti gli apparati potenzialmente connessi, per vicinanza fisica o per sede di irradiazioni nervose all'apparato ginecologico (intestino, vescica, reni, ovaie, colonna vertebrale, eccetera).

È bene inoltre considerare che il dolore ha sempre anche una componente psicologica che può aggravare o migliorare la situazione esistente, quindi dal punto di vista della terapia bisogna prendere in considerazione anche lo stato psichico di quel momento particolare (vedi le voci Depressione, Ansia, Dolore).

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Monday, January 29, 2007

Dolore cronico, ginnastica mentale per non sentirlo

Con un po’ di “esercizio” ci si può allenare a sconfiggere il dolore. È quanto dimostrato in uno studio unico nel suo genere diretto dall’anestesista Sean Mackey alla Stanford University School of Medicine. I risultati degli esperimenti sono stati pubblicati sui Proceedings of the National Academy of Sciences e potrebbero rivoluzionare il modo di trattare il dolore.

Con un sofisticato strumento, la risonanza magnetica funzionale per immagini trasmesse in tempo reale (RtfMRI), ed un po’ di esercizi sul pensiero, un gruppo di pazienti affetti da dolore cronico ha sconfitto la propria sofferenza senza farmaci; e non si tratta di effetto placebo, hanno rimarcato gli esperti.

Gli anestesisti hanno arruolato un gruppo di pazienti con dolore cronico usando la RtfMRI per mostrare loro l’attività del loro cervello nella corteccia cingolata rostrale anteriore, regione cerebrale che elabora le sensazioni dolorose. Gli esperti hanno chiesto loro di pensare al proprio dolore come a qualcosa di non completamente negativo, di lavorare sul pensiero del dolore in vari modi, mentre i pazienti guardavano in diretta le immagini del proprio cervello “proiettate” dalla RtfMRI.

Dopo qualche sessione di questo tipo i pazienti hanno cominciato a dominare l’attività del proprio cervello nei centri del dolore, attutendo le proprie sensazioni dolorose. Non si tratta di effetto placebo, hanno rimarcato gli esperti: numerosi gruppi di controllo sono stati utilizzati per escludere questa possibilità. Un gruppo è rimasto fuori dalla macchina per la RtfMRI, un altro, dentro la macchina, non ha ricevuto il feedback dell’attività del proprio cervello, un terzo ha osservato – senza saperlo – aree del suo cervello non legate al dolore, un quarto aree del cervello di un’altra persona. Nessuno di questi soggetti si è dimostrato capace di controllare il livello del proprio dolore.

La RtfMRI è uno strumento di inestimabile valore per questo tipo di studi, ha esclamato Mackey, “senza il quale non saremmo arrivati a questi risultati”. "Potremmo cambiare la vita delle persone", ha aggiunto l’anestesista. "Non sappiamo ancora come ciò avvenga ma è possibile controllare l’attività del proprio cervello e cambiarla lavorandoci su, basta un po’ di allenamento”. Alla lunga il complicato macchinario potrebbe rivelarsi superfluo e le persone in grado di modificare la propria attività cerebrale solo con un po’ di allenamento e senza bisogno di vedere il proprio cervello al lavoro. “Comunque", ha concluso Mackey, "servono altri studi e test prima di poter considerare questo un trattamento contro il dolore cronico".

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Tuesday, January 02, 2007

Crampi e dolori?

Colpa del magnesio. La carenza di questo minerale può essere responsabile di molti sintomi. Ecco i più diffusi
San Pietroburgo
Molti si preoccupano di arricchire la propria dieta con calcio, omega 3, i nuovi fitosteroli, ma nessuno, medici compresi, pensa mai al magnesio. Eppure questo minerale, che si concentra prevelentamente nelle ossa e da lì viene prelevato quando il livello circolante nel sangue si abbassa, è importantissimo per più di trecento reazioni biochimiche del nostro organismo, soprattutto per un corretto funzionamento muscolare e nervoso. La carenza di magnesio, secondo i dati diffusi ad un meeting organizzato a San Pietroburgo dalla Sanofi-Aventis, che vende il minerale nella forma più assorbibile di pidolato, è molto diffusa. C'è però, anche da parte dei medici, poca attenzione.
"Molti sintomi lamentati dai pazienti", spiega Ovidio Brignoli, vicepresidente della Società Italiana di Medicina Generale, "si possono ricondurre a carenze di magnesio. Il caso più comune è la cosiddetta sindrome della ipereccitabilità neuronale, ovvero sintomi legati ad uno stato d'ansia: inquietudine e iperemotività, insonnia, oppressione toracica, palpitazioni. Ci sono poi anche sintomi neuromuscolari, come crampi, parestesie, contratture, affaticabilità o altri sintomi neurovegetativi, pallore o vampate di calore, extrasistoli o palpitazioni. Uno squilibrio di questo minerale può anche essere causa di dismenorrea, sindrome della stanchezza cronica e premestruale".
I consigli? "Cominciare ad assumere almeno 5 porzioni di frutta e verdura, soprattutto a foglie larghe e verdi. Gli atleti, le donne in gravidanza e gli anziani hanno un bisogno maggiore di minerale: per loro, a maggior ragione, è indicata una supplementazione, almeno per un mese".
Ricordando alcune cose importanti: molti farmaci causano una perdita di magnesio all'organismo (diuretici, antibiotici, cisplatino, ciclosporine, digitale), così come alcune patologie (gastrointestinali come morbo di Crohn, colite ulcerosa), diabete mellito, infarto acuto del miocardio, pancreatite acuta, malassorbimento, alcolismo. Limitano l'assorbimento anche una dieta ricche in fibre o povere in proteine, alti livelli di calcio, attività fisica intensa e l'aumentare dell'età. Inoltre non ci sono effetti collaterali da sovradosaggio: l'organismo utilizza solo quello che gli occorre, il resto viene espulso.
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