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Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

Tuesday, March 21, 2006

"La terapia del dolore? L'Italia è ancora indietro"

di CLAUDIA DI GIORGIO

Dottor Bosco, come si definisce clinicamente il dolore?

Il dolore è uno stato di sofferenza che coinvolge totalmente l'individuo, dal punto di vista fisico, emotivo e psicologico. Bisogna tuttavia distinguere tra due aspetti del dolore. C'è il dolore acuto, che è un segno di malattia e rispecchia la presenza di una patologia. Quindi è un dolore "utile", che serve da segnale d'allarme. Gli va attribuita la giusta importanza ma rimane un sintomo tra gli altri. Noi invece ci occupiamo di dolore cronico, dolore, cioè, che diventa la malattia in se stessa, che rappresenta la malattia perché condiziona l'intera esistenza dell'individuo, influenza profondamente la qualità della sua vita e non è utile al fine di migliorare e caratterizzare una diagnosi. Il dolore, inoltre, determina anche conseguenze familiari e sociali, influendo su tutta la vita di relazione del paziente. Di conseguenza, noi lo affrontiamo nella sua globalità, con un approccio multidisciplinare che vede l'intervento di competenze diverse".

A quali condizioni patologiche si associa in prevalenza il dolore cronico?

"Anzitutto ai disturbi osteoarticolari e muscolari, quindi artrosi, deformazioni dello scheletro, lombalgie e mal di schiena. Un altro settore quantitativamente molto importante sono le cefalee. Le cefalee sono numerosissime: nel nostro paese colpiscono tra il 15 ed il 20 per cento della popolazione adulta, e non stiamo parlando di banali mal di testa occasionali ma di sofferenze che alterano la qualità di vita delle persone e ne limitano la funzionalità.
Perché curare il dolore e non la malattia? In primo luogo perché la malattia spesso è sfuggente, vale a dire che è assai difficile da diagnosticarne con esattezza la causa e quindi la cura (accade spessissimo con le cefalee). In altri casi non ci sono cure efficaci. Nell'artrosi generalizzata, ad esempio, i trattamenti di cui disponiamo sono solo palliativi, cioè evitano il peggioramento ma non guariscono. Tutti i disturbi cronici della colonna vertebrale di fatto non sono trattabili, e le terapie sono essenzialmente lenitive. Su questo tipo di disturbi la terapia del dolore è più efficace e i trattamenti fisioterapici di fatto sono adiuvanti rispetto al trattamento del dolore in sé. Inoltre, ci occupiamo di terapia del dolore per i malati neoplastici".

Dato che non serve a "guarire", che cosa si ottiene con la terapia del dolore?

"Un miglioramento, spesso decisivo, della qualità della vita, e quindi del livello di attività del paziente. In grande maggioranza i nostri pazienti sono anziani, quindi curare il dolore vuol dire contribuire alla loro autonomia, che di per se stessa è curativa anche dal punto di vista del tono dell'umore e di capacità di reazione all'invecchiamento. I malati di cefalea, al contrario, sono in gran parte giovani, quindi nel pieno dell'attività lavorativa. Migliorarne la funzionalità, oltre a rendere migliori le condizioni individuali, riduce anche gli elevati costi sociali di queste patologie, che sono sia costi diretti (per le terapie) che indiretti, in termini di giornate lavorative perse".

In cosa consiste la terapia del dolore?

"C'è un intervento di tipo farmacologico, che segue protocolli terapeutici abbastanza standardizzati (pur essendo ogni terapia personalizzata, esistono linee di guida generali), in cui si usano farmaci analgesici, i cosiddetti antinfiammatori non steroidi, poi oppiacei ed una serie di farmaci ad attività psicotropa, che agiscono sul sistema nervoso centrale, e si adottano come modulatori, cioè per potenziare gli analgesici. Poi ci sono tecniche di terapia del dolore cosiddetta "invasiva", con metodiche mediate sia dall'anestesia classica che dalla neurochirurgia, ad esempio l'impianto di cateteri permidollari (usati essenzialmente nei dolori neoplastici). Infine ci sono tecniche di biofeedback, tecniche di rilassamento, fino a interventi di tipo psicologico. Più che un singolo medico, infatti, la terapia del dolore richiede un centro ambulatoriale con specialisti di varie discipline, quindi, oltre all'antalgologo, un reumatologo, un ortopedico, uno psicologo eccetera".

Chi pratica la terapia del dolore in Italia e da quanto tempo?

"A livello mondiale, a parte qualche pioniere una trentina d'anni fa, non sono più di 15-20 anni che si sono organizzate strutture di ricerca e di cura in questo campo di lavoro. Negli ultimi anni anche in Italia c'è stato un forte interesse, ed oggi in quasi tutte le regioni ci sono uno o più centri di terapia del dolore. Gli anestesisti in generale sono molto interessati, ed esistono due società scientifiche a livello nazionale che si occupano di dolore. In quasi tutti gli ospedali più importanti esistono servizi di terapia del dolore, anche se molti operano ancora su base volontaristica. Grande spazio trova anche campo l'ipnosi e la terapia basata sull'analisi e la gestione del rapporto con il dolore divenuto cronico e che proprio per la sua durata tende a rendere la vita una costante sofferenza. A questo aspetto e alla sua gestione confluiscono gli psicologi e li psicoterapeuti specialisti del settore per restituire al paziente dignità ed autonomia in un quadro, sì disfunzionale, ma non gestibile".

Ma i medici di base quanto ne sanno?

"In Italia c'è molto da fare per far entrare nella cultura del medico di base il concetto di dolore cronico e di trattamento del dolore cronico. Le problematiche aperte sono varie, a cominciare dalla conoscenza dei farmaci da impiegare. Nel nostro paese esiste ancora una forte ostilità all'impiego di oppiacei nella terapia del cancro. In tutti i paesi occidentali più evoluti l'impiego di morfina nel dolore neoplastico è considerato tra gli indici di civiltà. Qui invece abbiamo grossissimi problemi, i medici hanno enormi resistenze. Il medico di base dovrebbe svolgere il ruolo di informatore del paziente riguardo alle possibilità di assistenza domicialere, cure palliative e terapia del dolore. Ma in effetti non lo fa. Più in generale, in Italia c'è un atteggiamento diffuso di paura nei confronti della morfina, considerata quasi come rimedio eroico che sottolinea l'ineluttabilità della situazione. Noi abbiamo una concezione ancora molto fatalistica del dolore".

Cosa pensa, in base alla sua esperienza clinica, della ricerca americana che indica le donne come maggiormente colpite dal dolore ma anche più capaci di sopportarlo?

"Sono assolutamente d'accordo. Le donne sono certamente più soggette a sindromi dolorose croniche, soprattutto cefalee e dolori osteoarticolari. Ma rispetto agli uomini hanno una soglia del dolore più elevata, reagiscono meglio e gestiscono meglio la sofferenza. Insomma, lo provano di più ma sanno tollerano. Globalmente, infatti, rileviamo che le nostre terapie hanno maggiore successo sulle donne".

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